PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 2014: JEAN PATRICK MODIANO
Erano passati una dozzina d’anni da quando non mi chiamavano più “Bijou” e mi trovavo alla stazione del metrò Châtelet nell’ora di punta. Ero tra la folla che percorreva il corridoio senza fine, sul tapis roulant. Una donna indossava un cappotto giallo. Il colore del suo cappotto aveva attirato la mia attenzione e la vedevo di spalle, sul tapis roulant. Poi camminava lungo il corridoio in direzione Château-de-Vincennes. Eravamo ora immobili, stretti gli uni contro gli altri a metà scala, aspettando che la porta si aprisse. Lei stava accanto a me. Allora l’ho vista in faccia. La somiglianza di quel volto con quello di mia madre era così sorprendente che ho creduto fosse lei.
Mi era ritornata in mente una fotografia, una delle poche di mia madre che ho conservato. Il volto è illuminato come se un riflettore lo avesse fatto affiorare dall’oscurità. Ho sempre provato fastidio nel guardarla. Nei miei sogni diventava, ogni volta, una fotografia antropometrica che qualcuno – un commissario di polizia, un addetto dell’obitorio – mi porgeva perché potessi identificare la persona ritratta. Ma io restavo in silenzio. Non sapevo niente di lei
Jean Patrick Modiano, Bijou
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Si era stupito che tra i milioni di abitanti presenti in una grande città come Parigi, ci si potesse imbattere nella stessa persona, a distanza di tanto
tempo, e ogni volta in un luogo molto lontano dal precedente. Aveva chiesto un parere a un amico che faceva calcoli probabilistici, per giocare alle
corse, consultando i numeri del giornale «Paris
Turf» degli ultimi venti anni. No, non c’era nessuna spiegazione. Allora Bosmans aveva pensato che il destino a volte insiste. Incontri due, tre vol te la stessa persona. E, se non le rivolgi la parola, allora peggio per te.
Jean Patrick Modiano, L’Orizzonte
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A New York oggi nevica. Dalla finestra del mio appartamento nella 59ª strada guardo il palazzo di fronte, dove si trova la scuola di danza che dirigo. Dietro l’ampia vetrata, le allieve in body hanno smesso gli esercizi sulle punte e gli entrechat. Mia figlia, che lavora con me come assistente, ha concesso loro una piccola pausa e sta mostrando un passo su un brano di musica jazz.
Fra poco le raggiungerò. Tra quelle allieve c’è una ragazzina che porta gli
occhiali. Prima che cominciasse la lezione li ha posati su una sedia, come facevo anch’io quando avevo la sua età, alla scuola di danza di Madame Dismaïlova. Non si può ballare con gli occhiali. Mi ricordo che all’epoca di Madame Dismaïlova, durante il giorno mi esercitavo a stare senza occhiali. Allora cose e persone per- devano i contorni. Tutto diventava sfumato, persino i suoni si facevano sempre più attutiti. Il mondo, quando lo guardavo senza occhiali, non aveva più asperità, era morbido e soffice come un grosso cuscino nel quale affondavo la guancia, e alla fine mi addormentavo.
– Cosa stai sognando, Caterina? – mi chiedeva papà.
– Dovresti metterti gli occhiali.
Io gli ubbidivo e tutto intorno a me ritrovava la durezza e la nitidezza di sempre. Con gli occhiali vedevo il mondo così com’era. Non potevo più sognare.
Qui a New York, per alcuni anni ho fatto parte di una compagnia di balletto. In seguito ho diretto una scuola di danza insieme a mia madre. Poi lei è andata in pensione e io ho continuato da sola. E adesso lavoro con mia figlia. Anche mio padre dovrebbe andare in pensione, ma non riesce a decidersi. In pensione da cosa, poi? Non ho mai saputo esattamente che mestiere faccia papà. Ora lui e la mamma vivono in un appartamentino del Greenwich Village. Insomma, non c’è granché da dire su di noi, siamo newyorkesi come tanti altri. L’unica cosa un po’ strana è questa: prima che ci trasferissimo in America, ho trascorso la mia infanzia a Parigi, nel X arrondissement. Sono passati quasi trent’anni, da allora.
Jean Patrick Modiano, Caterina Certezza