Senza strumenti, a mani nude, il falegname non può fare granché e senza strumenti, con il solo cervello, il pensatore non può fare granché.
BO DAHLBOM
***
Pensare è difficile. Pensare a certi problemi è così difficile che il solo pensiero di pensare a quei problemi può far venire mal di testa. Il mio collega neuropsicologo Marcel Kinsbourne suggerisce che quando pensare ci sembra difficile è sempre perché il percorso accidentato per arrivare alla verità è in competizione con altre vie più facili e allettanti, che poi risultano essere vicoli ciechi. È questione di resistere alle tentazioni e la fatica del pensare è dovuta per lo più a questo. Subiamo continui agguati e dobbiamo armarci di coraggio per realizzare il compito. Puah!
***
C’è un famoso aneddoto su John von Neumann , il matematico e fisico che trasformò l’idea di Alan Turing (ciò che oggi chiamiamo macchina di Turing) in un vero e proprio computer elettronico (ciò che oggi chiamiamo macchina di von Neumann, come per esempio un portatile o uno smartphone). John von Neumann era un virtuoso del pensiero, leggendario per la sua capacità di eseguire a mente calcoli incredibili con velocità fulminea. Secondo l’aneddoto, che come tutte le storie famose ha diverse versioni, un collega un giorno gli propose un problema che si poteva risolvere sia con una serie di calcoli complicati e impegnativi sia grazie a una soluzione elegante e istantanea, di quelle che vengono in mente in un lampo. Il collega aveva una teoria: in casi come questi, un matematico calcola la soluzione faticosa, mentre il fisico (più pigro, ma anche più geniale) si ferma a riflettere e trova la soluzione facile e rapida. Quale soluzione avrebbe trovato von Neumann? Il problema è: due treni viaggiano sullo stesso binario in direzione l’uno dell’altro e si trovano a 100 chilometri di distanza; il treno A viaggia a 30 chilometri all’ora e il treno B a 20. Un uccello che vola a 120 chilometri all’ora parte dal treno A (quando i treni sono a 100 chilometri l’uno dall’altro), vola fino al treno B, torna indietro fino al treno A e così via, fino a quando i due treni si scontrano. Quanti chilometri ha percorso l’uccello al momento in cui avviene lo scontro? “240 chilometri”, rispose von Neumann quasi all’istante. “Accidenti!”, replicò il collega, “avevo scommesso che avresti scelto la strada difficile ricorrendo alla somma di serie infinite.” “Ah!”, esclamò imbarazzato von Neumann, battendosi la fronte, “c’è una strada facile!” (Suggerimento: quanto tempo passa prima dello scontro?)
Certe persone, come von Neumann, sono naturalmente tanto geniali da poter superare facilmente le situazioni più complicate, e altre procedono lentamente e faticosamente, ma hanno la fortuna di possedere una “forza di volontà” straordinaria che le aiuta a tenere duro nella loro ostinata ricerca della verità. In mezzo ci siamo tutti noi che non siamo calcolatori prodigio e siamo un po’ pigri, ma comunque aspiriamo a comprendere tutto ciò che incontriamo. Che cosa possiamo fare? Possiamo usare strumenti per pensare, ne esistono decine e decine. Questi comodi apparati protesici per potenziare l’immaginazione e mantenere l’attenzione ci permettono di riflettere in maniera corretta e anche elegante su problemi veramente difficili.
***
Come tutti gli artigiani, un fabbro ha bisogno di attrezzi, ma — secondo una vecchia osservazione (per la verità ormai quasi del tutto dimenticata) — i fabbri sono gli unici che costruiscono i propri strumenti. Non sono i falegnami a fabbricare i martelli e le seghe, non sono i sarti a fabbricare le forbici e gli aghi, non sono gli idraulici a fabbricare le chiavi e le pinze, ma i fabbri sanno forgiare martelli, tenaglie, incudini e scalpelli dalla materia prima, il ferro. E gli strumenti per pensare? Chi li costruisce? E di che cosa sono fatti? I filosofi sono stati gli artefici di alcuni tra i migliori strumenti – fatti di null’altro che idee, strutture informative utili. Cartesio ci ha dato le coordinate cartesiane, gli assi x e y senza i quali il calcolo infinitesimale – uno strumento del pensiero par excellence inventato simultaneamente da Isaac Newton e dal filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz – sarebbe quasi impensabile. Blaise Pascal ci ha dato la teoria delle probabilità, che permette di calcolare facilmente i quozienti di scommessa. Il reverendo Thomas Bayes, anch’egli matematico di talento, ci ha lasciato il teorema di Bayes, il pilastro del pensiero statistico detto appunto bayesiano. Gli strumenti che compaiono in questo libro, tuttavia, per la maggior parte sono più semplici, non sono le macchine precise e sistematiche della matematica e della scienza, ma gli utensili a mano della mente. Eccone alcuni:
Le etichette. A volte il solo fatto di dare un nome accattivante a qualcosa ci aiuta a non perderlo di vista mentre lo rigiriamo nella mente cercando di comprenderlo. Tra le etichette più utili, come vedremo, vi sono le etichette di avvertimento, o allarmi, che ci mettono in guardia contro probabili fonti di errore.
Gli esempi. Alcuni filosofi pensano che usare esempi nel loro lavoro sia, se non proprio un inganno, quanto meno superfluo – un po’ come i romanzieri evitano le illustrazioni nei loro libri. Il romanziere è orgoglioso di fare tutto con le parole, e i filosofi vanno fieri di fare tutto con generalizzazioni astratte presentate in ordine rigoroso, quanto più possibile simili a dimostrazioni matematiche. Buon per loro, ma non possono aspettarsi che io raccomandi il loro lavoro a più di un paio di studenti eccezionali. Molto semplicemente, è più difficile del necessario.
Le analogie e le metafore. Mettere in corrispondenza le caratteristiche di qualcosa di complesso con le caratteristiche di un altro oggetto complesso che già conosciamo (o crediamo di conoscere) è uno strumento del pensiero famoso per essere potente, ma lo è in misura tale da poter facilmente fuorviare i filosofi quando a catturare la loro immaginazione è un’analogia ingannevole.
Le impalcature. Possiamo mettere la copertura a un tetto, dipingere una casa o riparare un camino usando soltanto una scala, spostandola via via e potendo realizzare ogni volta solo una piccola parte del lavoro, ma alla fin fine spesso è assai più facile montare un’impalcatura robusta che permette di spostarsi rapidamente e in sicurezza per tutta l’area di lavoro. Molti dei più preziosi strumenti per pensare presentati in questo libro sono esempi di impalcature che hanno un tempo di allestimento un po’ lungo, ma poi permettono di affrontare insieme una gran varietà di problemi – senza dover continuare a spostare la scala.
Infine, vi è quel genere di esperimenti mentali che ho soprannominato pompe dell’intuizione.
***
Consideriamo una di queste espressioni: uva acerba. Viene da una favola di Esopo, La volpe e l’uva, e attira l’attenzione su come a volte le persone fingano di non provare interesse per ciò che non possono avere denigrandolo. Pensate quanto può essere significativo commentare qualcosa che vi hanno appena detto con la semplice domanda: “L’uva è acerba?”. Il vostro interlocutore prenderà in esame una possibilità che altrimenti gli sarebbe potuta sfuggire e questo lo indurrà senz’altro a cambiare idea o a riflettere sul problema in questione da una prospettiva più ampia — oppure a offendersi (gli strumenti possono essere usati anche come armi). La morale della favola è tanto conosciuta che si può aver dimenticato la trama della storia o le sue sottigliezze — se sono importanti, e a volte non lo sono.
***
È nel terreno di mezzo, grosso modo a metà strada tra la poesia e la matematica, che i filosofi, secondo me, possono offrire il contributo migliore, chiarendo in misura significativa problemi profondamente sconcertanti.
***
A vedere non sono i vostri occhi, siete voi. A gustare la torta al cioccolato non è la vostra bocca, siete voi. A detestare la fitta alla spalla non è il vostro cervello, siete voi.
A firmare un contratto non è la vostra mano, siete voi. Il vostro corpo può essere eccitato, ma siete voi a innamorarvi. Non è una mera questione “grammaticale”, come il fatto che quando c’è il temporale diciamo “Sta piovendo”, non “Il temporale sta piovendo”. A volte mi domandano, in tono sprezzante: “È solo una questione semantica, giusto?”, con il che intendono che poco o niente dipende da come “definiamo i termini”. E invece il modo in cui definiamo i termini spesso fa molta differenza, e questa è una di quelle volte. Il nostro modo di parlare delle persone e di ciò che possono fare e patire si basa su alcuni fatti importanti.
A prima vista sembra che una persona tutta intera possa fare cose che nessuna delle parti che la compongono può fare, e ciò è quasi corretto, ma un macabro esercizio di immaginazione lascia supporre che se la verità fosse questa, una persona sarebbe (approssimativamente) una parte vera e propria del corpo umano, cioè un cervello integro e funzionante. (Ho un cervello o sono un cervello? Non è facile rispondere.) Se mi amputate le braccia, posso ancora firmare un contratto (con un ordine orale o tenendo la penna con le dita dei piedi); ma se mi spegnete il cervello, nulla di ciò che possono fare le mie braccia e le mie mani è considerato equivalente a firmare un contratto. Se mi strappate gli occhi, non vedo più – a meno di non essere dotato di protesi dei bulbi oculari, che non sono una fantasia da fantascienza avveniristica. E se iniziate ad “amputare” qualche parte del mio cervello? Se rimuovete la corteccia occipitale lasciando intatti gli occhi e il nervo ottico, sono colpito da “cecità corticale”, ma potrei comunque avere qualche competenza visiva residua (per esempio, la famosa condizione nota come “visione cieca”). Senza dubbio potreste amputare un altro pezzetto di cervello ed eliminare la visione cieca, e io potrei comunque continuare a vivere. Si è tentati di pensare che un tale processo di eliminazione, sopprimendo l’udito, il gusto, il tatto e l’olfatto, potrebbe ridurre gradualmente il cervello lasciando soltanto il quartier generale fondamentale della persona – è lì che sarebbe, ed è anche ciò che sarebbe, una persona. L’idea è allettante, però è sbagliata. Le innumerevoli competenze del cervello sono intrecciate e interagenti in misura tale che non esiste un luogo centrale nel cervello “dove tutto converge” nella coscienza. Se è per questo, molte delle competenze, inclinazioni, preferenze e stranezze di carattere che fanno sì che voi siate voi dipendono da percorsi che attraversano il vostro corpo al di fuori del cervello; il sempre popolare esperimento mentale filosofico del trapianto di cervello (che cosa preferireste: essere il “donatore” o il “destinatario”?) è permesso da un’idealizzazione molto fuorviante. Come scrissi tempo fa (Dennett, 1996a, pp. 89-90), “Non mi possono separare dal mio corpo lasciando un bel margine netto”.
***