Metto i sandaletti al più piccolo mentre lui cerca ostinatamente di sfilarseli ancora. Carico in auto l’ingombrante passeggino doppio. Prendo pannolini, biberon, copertina e una bottiglietta di tè per ognuno. Sgrido i due più grandi che si rincorrono in giardino: finalmente salgono, infangando dappertutto.
«Hai preso le felpe?» «Sì, però ho dimenticato il ciuccio.»
Scendo, risalgo. Partiamo.
«Mamma, mi scappa la pipì». Smontiamo tutti di nuovo.
Spostare la famiglia solo per fare quattro passi in città è un’impresa. Lo stesso per prepararci tutti al mattino, o andare a letto alla sera, quando le energie sono già esaurite da un pezzo. Senza parlare naturalmente dei momenti di malattia e difficoltà, vere maratone di lavoro e ansietà.
Affaticato, mi chiedo se questa è vita.
«Sicuro», mi rispondo: queste sono le mie soddisfazioni; e questo è il mio tempo.
Solo alcune decine d’anni (almeno spero) in cui fatico, mi impegno a fondo, ma divento artefice della mia vita. È questo il breve e prezioso tempo a disposizione per costruire qualcosa e dare significato alla mia esistenza.
Quando ero bambino qualcun altro decideva per me. Quando sarò vecchio tante scelte importanti saranno già state prese. Lavoro, impegno sociale, passioni e, soprattutto, moglie e figli sono il frutto di questo tempo fatto di realizzazioni importanti e decisioni talvolta rischiose.
Certo, bisogna essere disposti a rinunciare a qualche piacere e comodità – e non tutti lo sono: poche notti brave e tante notti in bianco, rari viaggi e frequenti soste, tasche vuote e pannolini pieni. Sono convinto, però, che le emozioni facili e i tanto invidiati piaceri moderni siano ben diversi – e ben più fragili – di una profonda e appagante soddisfazione interiore: i primi durano pochi attimi o qualche giorno, lasciandoti alla fine con un pugno di sensazioni vuote; la seconda ti accompagna per la vita, diventando volano di serenità.
Ma per godere di tale soddisfazione so di non poter attendere immobile, posticipando le mie decisioni importanti. Devo scegliere bene e scegliere adesso il mio futuro, scacciando le paure con forza e determinazione, inseguendo ciò che è vita, rifiutando meschini rimedi e pigre scorciatoie.
Devo vivere, consapevolmente e fino in fondo, queste mie stagioni che si alternano cicliche ma uniche, irripetibili anno dopo anno. È questo il momento per interrogarmi e guardare oltre, per osare e scovare Dio.
Ho l’obbligo di sbarazzarmi di quella sciocca ma diffusa illusione d’immortalità che seduce e induce l’uomo adulto a vivere come eterno giovinetto.
Tutto ciò non si limita al cogliere l’attimo per non perdere l’emozione del momento: si rischierebbe in tal modo di chiuderci in uno sterile e vuoto presente, incapaci di guardare al domani. No, bisogna immaginare in ogni istante il proprio futuro (anche a cent’anni) e mettersi a lavorare subito per realizzarlo. È questa la speranza. È questa la sorgente da cui scaturisce l’entusiasmo e la serenità.
E invece, ogni giorno, rischiamo di perdere decisive occasioni nell’indifferenza e nell’inutile attesa, senza notare lo scorrere veloce e continuo dei battiti del nostro cuore. Desideriamo un futuro sereno e ideale, ma non lo costruiamo usando e gustando con saggezza il quotidiano presente. Oppure, siamo assaliti dalla nostalgia del passato, dai ricordi e dalle immagini di tanti bei momenti andati: vissuti ieri, magari, con indifferenza, recuperati oggi come rimpianti e freni del domani.
Guardiamoci in faccia, uomini e donne di questa generazione. Cosa stiamo aspettando?
Lasciamo i timori. Tuffiamoci dentro: è questo, è proprio questo il nostro tempo.
Daniele Carraro
famiglia
Capricci o voglia di biberon? Fame o male al pancino?
Purtroppo, niente di tutto questo. Febbre alta e lamenti. Ci risiamo. I virus ci hanno invaso di nuovo. Malvagi e astuti, hanno assalito il figlio minore.
Prendo lo sciroppo di tachipirina, sospiro e penso fra me: «Grazie che ci sei. Cosa farei adesso senza di te?» Alle 3:00 del mattino è lecito pensare anche in questo modo.
Le notti successive però scorrono peggiori delle precedenti, con la luce sempre accesa. La febbre continua a salire e l’umore inizia a scendere. Una nuova colonia nemica di batteri è sopraggiunta potente e, dopo un periodo di assedio, ha preso il sopravvento. Alla fine la svolta. Un dolce antibiotico al gusto di fragola risolve in poco tempo la situazione e riporta la pace in famiglia. Viva la medicina e la scienza che mi hanno sollevato da una situazione potenzialmente pericolosa.
Chissà come se la cavavano i miei nonni e bisnonni in situazioni del genere: in piena campagna, senza antibiotici né conoscenze, privi di riscaldamento e paracetamolo. Forse applicavano qualche straccio imbevuto d’acqua fresca sulla fronte. Oppure ascoltavano in penombra i lamenti del figlio, fino al silenzio per sfinimento?
Lascio a voi il triste responso, aggiungendo l’amara certezza che altrove accade ancora. Certo, esiste l’ingiustizia dell’uomo, incapace di essere solidale fino in fondo, e comunque ancora limitato nelle conoscenze e nell’agire. Ci sta il fatalismo di una natura crudele che cerca di salvaguardare la specie e se ne frega del singolo. Ma come la mettiamo con l’apparente e incomprensibile disinteresse di Dio per tante sfortunate famiglie passate e presenti?
Lo chiedo, nel buio della mia camera, al silenzio delle mie ragioni, incapace di chiudere gli occhi e abbandonarmi alla tranquillità del sonno.
La fede che porto in cuore è fatta di tanti dubbi da risolvere e di poche risposte sicure. È ricca d’incertezze e povera di evidenze. Ma sono proprio queste domande sospese che alimentano la mia testarda ricerca di verità.
Perché non si diventa cristiani assumendo facili risposte in pillole preconfezionate o sciroppi di verità addolcite. È quello spirito inquieto di S. Agostino e di altri padri della chiesa che pervade gli animi e riesce ancora a produrre fermento ravvivando la nostra religione. È osservando questo cristianesimo, fatto anche di crudi interrogativi, che qualcuno continua a dire: «finché c’è inquietudine si può stare tranquilli».
Daniele Carraro