“Sono sbarcata in quest’isola alla fine del pomeriggio. Dal ferry vedevo il porticciolo avvicinarsi, con la cittadina bianca appollaiata intorno al castello veneziano e pensavo: forse è qui. E mentre percorrevo le viuzze a scalinata che arrivano fino alla torre, col mio bagaglio che ogni giorno si fa più leggero, a ogni gradino ripetevo: forse è qui. Nella piazzetta sotto il castello, un terrazzato da cui si domina il porto, c’è un ristorante popolare, con vecchi tavolini di ferro lungo un muricciolo, due aiole con due olivi e gerani molto rossi in vasi rettangolari. Dei vecchi siedono sul muricciolo e parlano basso, bambini corrono intorno al busto marmoreo di un capitano baffuto che fu un eroe delle guerre balcaniche degli anni venti. Mi sono seduta a un tavolino, ho posato il mio bagaglio per terra e ho ordinato il piatto tipico dell’isola, coniglio con cipolle profumato di cannella. Si fanno vivi i primi turisti: comincia il giugno. Stava calando la notte, una notte trasparente che ha trasformato il cobalto del cielo in un violetto acceso, e poi il buio dove è rimasto l’indaco. Sul mare brillavano le luci dei villaggi di Paros, che sembrava a due passi. Ieri a Paros ho conosciuto un medico.
E’ un uomo del Sud, di Creta, penso, anche se non glielo ho chiesto. E un uomo basso e robusto, con delle venuzze sul naso.
Io guardavo l’orizzonte e lui mi ha domandato se stessi guardando l’orizzonte. Sto guardando l’orizzonte, gli ho risposto.
Lunica linea che frange l’orizzonte è l’arcobaleno, ha detto lui, l’inganno di una riflessione ottica, una pura illusione. E abbiamo parlato di illusioni, e non volendo ho parlato di te, ho fatto il tuo nome senza farlo, e lui mi ha detto di averti conosciuto perché aveva suturato le tue vene un giorno che ti tagliasti i polsi. Non lo sapevo, e ciò mi ha commosso, e ho pensato che in lui avrei trovato un poco di te, perché aveva conosciuto il tuo sangue. Così l’ho seguito nella sua pensione, si chiamava Thalassa, era infatti sul lungomare, ed era squallida, abitata da tedeschi di classe modesta che vengono a passare le ferie in Grecia e detestano i greci. Però lui non era come i tedeschi, era gentile, si è spogliato con pudore, e aveva un membro piccolo, un po’ ritorto, come certe statue di satiri delle terrecotte del museo di Atene. E non voleva tanto una donna ma soprattutto parole di conforto, perché era infelice, e io ho finto di dargliele, per umana pietà.
Ti ho cercato, amore mio, in ogni atomo di te che è disperso nell’universo. Ne ho raccolti quanti mi era possibile, nella terra, nell’aria, nel mare, negli sguardi e nei gesti degli uomini.
Ti ho cercato perfino nei kouroi, nella lontana montagna di una di queste isole, solo perché una volta mi dicesti che ti eri seduto sul grembo di un kouros. L’ascesa non è stata facile. La corriera mi ha lasciata a Sypouros, se così si chiama un villaggio sconosciuto anche alle mappe geografiche, e poi c’erano tre chilometri da fare a piedi, ho salito lentamente la strada sterrata a curve che più avanti scende verso una valle di olivi e cipressi.
C’era un vecchio pastore lungo la strada, e gli ho solo detto l’unica parola che importava: kouros. E nei suoi occhi è brillata una luce di complicità come se avesse capito, come se sapesse chi ero io e chi cercavo, che cercavo te, e senza dire una parola ha steso una mano indicandomi il cammino, e io ho raccolto il suo gesto che mi ha guidato e quella luce che è brillata un attimo nei suoi occhi e li ho messi in tasca, guarda, li ho qui, potrei disparli sul tavolino di questa terrazza dove sto cenando, sono altre duepietruzze di questo affresco in brìciole che sto disperatamente raccogliendo per ricostruirti, oltre all’odore dell’uomo con cui ho passato la notte, l’arcobaleno sull’orizzonte e questo mare celeste che mi angoscia. Ma soprattutto una finestra inferriata che ho trovato a Cantorini, sulla quale si inerpicava una vite, e da dove si vedeva il vasto mare e una piazzetta.
Il mare era infiniti chilometri, e la piazzetta pochi metri quadrati, e intanto mi ricordavo di poesie che parlano di mari e di piazze, un mare di tegole scintillanti che una volta vidi con te da un cimitero, e una piazzetta dove le persone che l’abitavano avevano visto il tuo volto, e così mentalmente io ti cercavo nello scintillio di quel mareperché tu l’avevi visto, e negli occhi del mereceiaio, del farmacista, del vecchietto che vendeva caffè ghiacciato in quella piazzetta, perché ti avevano visto. Anche
queste cose le ho messe in tasca, in questa tasca che è me stessa e i miei occhi. Un pope è uscito sul sagrato. Sudava nelle sue vesti nere e recitava una liturgia bizantina dove il kyrie aveva un colore di te.
C’è un battello all’orizzonte che lascia nell’azzurro una striscia di spuma bianca. Sarai tu anche quella? Forse. Potrei metterla nella mia tasca. Ma intanto una prematura turista straniera, prematura per la stagione, perché l’età è quasi venerabile, telefona dall’apparecchio aperto al vento e ai passanti, davanti al mare, e dice: Here thè spring is wonderful. I will remain very well. E questa è una frase tua, la riconosco anche se detta in un’altra lingua, ma in questo caso è solo l’approssimativa traduzione in inglese di ciò che tu hai già detto, lo sappiamo bene. La primavera è passata per noi, mio caro amico, mio caro amore. E l’autunno è già
arrivato, con il giallo attuale delle sue foglie. Anzi, è il pieno inverno in questa precoce estate rinfrescata dalla brezza che stasera soffia sulla terrazza affacciata sul porto di Nasso.
Finestre: ciò di cui abbiamo bisogno, mi disse una volta un vecchio saggio in un paese lontano, la vastità del reale è incomprensibile, per capirlo bisogna rinchiuderlo in un rettangolo, la geometria si oppone al caos, per questo gli uomini hanno inventato le finestre che sono geometriche, e ogni geometria presuppone gli angoli retti. Sarà che la nostra vita è subordinata anch’essa agli angoli retti? Sai, quei difficili itinerarì, fatti di segmenti, che tutti noi dobbiamo percorrere semplicemente per arrivare alla nostra fine, forse, ma se una donna come me ci pensa da una terrazza spalancata sul Mar Egeo, in una sera come questa, capisce che tutto ciò che pensiamo, che viviamo, che abbiamo vissuto, che immaginiamo, che desideriamo, non può essere governato dalle geometrie. E che le finestre sono solo una pavida forma di geometria degli uomini che temono lo sguardo circolare, dove tutto entra senza senso e senza rimedio, come quando Talete guardava le stelle, che non entrano nel riquadro della finestra.
Tutto ho raccolto di te: briciole, frammenti, polvere, tracce, supposizioni, accenti restati in voci altrui, qualche grano disabbia, una conchiglia, il tuo passato immaginato da me, il nostro supposto futuro, ciò che avrei voluto da te, ciò che mi avevi promesso, i miei sogni infantili, l’innamoramento che bambina sentii per mio padre, certe sciocche rime della mia giovinezza, un papavero sul ciglio di una strada polverosa. Anche quello ho messo in tasca, sai?, la corolla di un papavero come quei papaveri che andavo a cogliere sulle colline a maggio con la mia Volkswagen, mentre tu stavi in casa gravido dei tuoi progetti, attendendo alle complicate ricette che tua madre ti aveva lasciato in un librìccino nero scritto in francese, e io ti raccoglievo papaveri che tu non sapevi capire. Non so se tu hai messo il tuo seme dentro di me o viceversa. Ma no, nessun seme di noi è mai fiorito. Ciascuno è solo se stesso, senza la trasmissione di carne futura, e io soprattutto senza qualcuno che raccoglierà la mia angoscia. Tutte le ho girate queste isole, tutte cercandoti. E questa è l’ultima, come io sono ultima. Dopo di me, basta.
Chi ti potrebbe cercare ancora se non io?
Non si può tradire così, tagliando tifilo. Senza neppure che io sappia dove riposa il tuo corpo. Ti sei consegnato al tuo Minosse, che credevi di aver beffato ma che alla fine ti ha inghiottito.
E così ho decifrato epigrafi in tutti i possibili cimiteri, alla ricerca del tuo nome amato, dove almeno poterti piangere. Due volte mi hai tradito, e la seconda nascondendomi il tuo corpo. E ora sono qui, seduta a un tavolino di questa terrazza, guardando inutilmente il mare e mangiando coniglio insaporito di cannella.
Un vecchio greco indolente canta una canzone antica per accattonaggio. Ci sono gatti, bambini, due inglesi della mia età che parlano di Virginia Woolfe un faro in lontananza di cui non si sono accorti. Io ti feci uscire da un labirinto, e tu mi ci hai fatto entrare senza che per me uscita ci sia, neanche se fosse quella estrema. Perché la mia vita è passata, e tutto mi sfugge senza possibilità di un nesso che mi riconduca a me stessa o al cosmo.
Sono qui, la brezza mi accarezza i capelli e io brancolo nella notte, perché ho perso il mio filo, quello che avevo dato a te, Teseo. ” il tempo a nostra disposizione, purtroppo, sta finendo. Cloto e Lachesi hanno terminato il loro compito, e ora tocca a me. Lorsignori mi perdoneranno, ma in questo attimo, che io sto misurando su una clessidra diversa dalla Loro, è apparso per tutti Loro lo stesso anno, lo stesso mese, lo stesso giorno, la stessa ora di tagliare il filo. Ed è questo che, non senza dispiacere, mi credano, sono incaricata di fare. Adesso.
Ora. Subito.
ANTONIO TABUCCHI, SI STA FACENDO SEMPRE PIU’ TARDI