Perso l’amore, non resta che bere.
L’endecasillabo perfetto.
Un poeta solo con un solo verso.
E io di versi ne ho scritti così pochi… Però ne ho emessi a volontà!
Uooh! Uooh! Uooh!
Versi. Conati. Sbocchi. Rigurgiti. Spurghi. Macché, nemmeno riesco a vomitare.
Le cose non vanno per il verso giusto. Per certi versi. Per un verso o per l’altro. Mi faccio il verso.
Verso? Verso cosa? lo non sto andando da nessuna parte.
***
Torno a casa. Lo tiro fuori e vedo che la macchiolina è diventata rosa. Forse avevano ragione i ragazzi. Era solo lo strofinamento. Forse sono sano: ci penserò più tardi.
Più tardi.
Ma sì.
E ora?
Ora sì che bisogna fare qualcosa.
Più tardi.
Ora devo uscire.
L’unica cosa che devo fare è uscire.
La prima e l’ultima cosa che devo fare è uscire.
Perso l’amore, non resta che bere.
L’endecasillabo perfetto.
A noi due.
***
Le telefonate mi perseguitano. Tutti stanno male. Nemmeno fossi Cristo risorto, mi cercano tutti. E io non so dire di no, perché anch’io non sto bene, e a volte da solo, a casa, mi trastullo con l’idea di smetterla con la vita di questi mesi, anche solo per una settimana. Penso di potercela fare, di prendere una pausa da queste anime in pena, per pensare a tutto quel che è stato. A volte ho davvero voglia di tirare il freno. Scendere. Respirare.
Invece no.
Alla fine esco, perché un po’ si ride e un po’ si rimanda tutto al giorno dopo, che è lontanissimo. Lontano quanto una notte di sbronze, dove il tempo si dilata all’infinito sotto le luci soffuse di un locale, nei riflessi scarlatti o ocra del bicchiere, nel mormorio degli avventori, nello specchio dietro al bancone che riflette sagome sfocate, nelle grida dei lunatici sbronzi, nel fumo delle ultime sigarette, nei vecchi senza più denti e capelli e vita che ti siedono accanto, nei brindisi sghembi e nei sorrisi forzati, nei borbottii di una canna fumata al freddo, nelle camminate per una città divorata dal gelo, in un’ora abbandonata come l’alba, mentre rincasiamo con i geloni e vediamo accendersi le prime luci, tanto calde da commuoverci, al pensiero del tepore di una famiglia, un bacio sul collo, un colpo di tosse e un caffè.
***
«Un infarto?» ha detto con un filo di voce. E poi: «Come. Non capisco».
Un padre, un genitore, ha paura di mille cose: gli incidenti di macchina, la droga, le amicizie pericolose, la delinquenza, l’anoressia, la bulimia, la depressione, il suicidio, l’assenza di motivazioni, la ribellione, la mancanza di rispetto, la disoccupazione, il ripudio della famiglia, le nevrosi, gli abusi, l’incertezza sessuale, la devianza, il suicidio, anche l’omicidio. Ma l’infarto! Lo so cosa vorrebbe dire mio padre: «Ascolta, c’è stato un equivoco! Sono io che vado a giocare a tennis due volte alla settimana per non schiattare prima degli ottanta! Sono io che non fumo da trent’anni per agevolare la circolazione! Sono io che bevo con moderazione per non affaticare le coronarie! Sono io che controllo ogni anno il colesterolo! Che cazzo c’entri tu! Tanto vale che mi metta un giubbotto di pelle, dei jeans sdruciti, un bandana in testa e vada in discoteca a calarmi rischiando la vita alle tre di notte sulla tangenziale!»
«Papà, quello è Fonzie. Io non vado in giro vestito così».
«Dicevo per dire. Il concetto è chiaro».
Ma mio padre non è incazzato: solo non sa cosa pensare. Mi guarda.
Secoli di generazioni assennate buttate nel cesso, vorrebbe forse dire.