Quand’ero bambino e mi capitava di sentirmi triste, mia madre mi guardava con tenerezza e, con un breve sorriso, mi diceva: “Vieni qui, facciamo cera riva”.
In piemontese, al posto di viso, volto, diciamo cera. T’las na bela cera vuol dire infatti hai un bell’aspetto. Riva, invece, vuol dire ‘vicino’. Cera riva significava insomma stare guancia a guancia, sia pure per pochi secondi, senza fiatare. Allora la tristezza evaporava come per miracolo e io potevo staccarmi da quell’abbraccio, guardando riconoscente mia madre e allontanandomi felice.
Da grande, i motivi per fare cera riva si erano fatti più consistenti ma stare cera riva non era più, da sola, la soluzione. Succedeva anche a mia madre di sentire quel bisogno di stare vicini. Allora ero io a proporglielo. “Dài, mamma, facciamo cera riva”. I problemi non svanivano, ma la vicinanza delle nostre guance continuava a produrre quell’effetto un po’ magico.
Oggi che mia madre non c’è più, quel cera riva mi manca, perché era solo con lei che potevo farlo. Si può voler bene, amare qualcuno appassionatamente. Ma quel legame, profondo e antico come nessun altro, si è dissolto e vaga nello spazio. Io non saprei più dove andarlo a trovare.
[ANGELO PEZZANA – UN OMOSESSUALE NORMALE]