Il calcio è un gioco, ma un gioco molto serio e con uno sviluppo sempre più complesso che richiede nuove competenze e conoscenze aggiornate per essere compreso in profondità
L.Bifulco, F.Pirone, A tutto Campo
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Il calcio è partecipazione, pone di fronte a nuove opportunità, riduce le povertà e le diseguaglianze, è un grande antidoto alla devianza e alla microcriminalità.
Ma è altresì veicolo di nuove forme di razzismo, anche territoriale.
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È la cultura a salvare la memoria di un popolo, ma sono gli sport in generale, con la TV, a rendere unitarie le forme di rappresentazione.
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gli intellettuali possono non essere èlites ma educatori dal volto umano e ricercatori di verità, competenze
e meritocrazie
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Chi ha giocato a calcio, in modo amatoriale o come professionista, sa che calciare un pallone e vivere le forti sensazioni di una partita significa provare una forma particolare di felicità, a prescindere o forse anche in virtù di quel travolgente corredo di emozioni, spiacevoli o d’esultanza, che lo svolgimento di una gara può stimolare. Quando ero calciatore si faceva davvero di tutto per scendere in campo, per giocare quante più partite possibili, perché ci si divertiva, ci si entusiasmava, in fin dei conti ci si sentiva bene. Il calcio era tutto, il campo di calcio era la nostra vita. Eppure, al di là del campo, il calcio è un mondo molto complesso in cui convergono tanti fattori, economici o sociali ad esempio, che ne ampliano l’importanza e i motivi per cui prestare attenzione. Attorno al calcio giocato, soprattutto quello professionistico, ruota una combinazione particolare di passione e interessi che ne fanno un qualcosa di davvero singolare, specie per le dimensioni del fenomeno.
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A tanti di noi sarà capitato di andare allo stadio, magari con degli amici, per vedere una partita della squadra del cuore. L’intenso vortice di emozioni che accompagna le azioni di gioco non sarà allora esperienza a noi ignota: l’apnea e la silenziosa speranza con cui seguiamo il nostro attaccante scartare un paio di giocatori, avvicinarsi alla porta e tirare; l’urlo di gioia strozzato in gola quando la palla calciata sbatte sul palo, subito rimpiazzato da feroci imprecazioni e da un senso di profondo rammarico; la disperazione che ci coglie quando l’arbitro ci fischia un rigore contro e la rabbia con cui rivolgiamo al direttore di gara invettive irripetibili; la paura che condisce i fischi e le esclamazioni colorite che riserviamo al rigorista avversario; il grido liberatorio, accompagnato da gesti di scherno nei confronti dei rivali, quando il nostro portiere devia in angolo il calcio di rigore; la felicità che ci pervade quando un nostro calciatore deposita la palla in rete, che ci fa abbracciare chiunque capiti a tiro, amici o sconosciuti, e ci fa telefonare a nostro padre e a nostro fratello per esultare insieme a loro; quella sensazione del tempo che non passa mai mentre aspettiamo il fischio finale; l’euforia che ci consente di abbandonarci in cori di giubilo, ma anche di derisione per gli avversari sconfitti, quando realizziamo che la partita è finita e abbiamo vinto.
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Certo, esistono tante tipologie di tifosi. C’è chi sente un fortissimo attaccamento a un club, che sostiene con grande tensione emotiva. Questi conosce la storia del proprio team, ha legami profondi con altri tifosi e non disdegna di recarsi allo stadio quando può. C’è poi chi si sente legato ad una squadra con simile intensità, ma per ragioni geografiche non può seguirla dal vivo, e può condividere fisicamente la propria appartenenza solo con pochi amici. Così, egli si affida alle emozioni, alle informazioni o alla possibilità di partecipazione vicaria che i media – tv, radio, internet – forniscono. C’è poi chi segue un club, o anche solo un giocatore di particolare fascino, in modo meno energico, con un trasporto molto relativo, e chi – infine – è semplicemente appassionato dell’estetica e dell’impianto emozionale del gioco.
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Il pallone rappresenta uno strumento portentoso di costruzione dell’identità sociale. Ciò proprio perché consente di sentirsi accolti in un gruppo che condivide una sorte fatta di gioie e dolori, sulla base di riferimenti – locali, etnici, di classe – o di relazioni – parentali, amicali, professionali – molteplici e composite. Con gradazioni diverse a seconda dei casi e delle persone, si definisce il proprio sé nei termini di una feconda appartenenza. Seguendo le indicazioni della Social Identity Theory, possiamo affermare che l’identificazione sociale risponde alla domanda “Chisono?” affiancando agli attributi personali, come il genere e l’età, un senso di unità con un gruppo o un’organizzazione (Fink et al., 2009). In effetti, soprattutto in Italia, quando raccontiamo chi siamo e ci descriviamo non è inusuale indicare, come elemento che ci rappresenta e caratterizza, la passione per il calcio e la squadra per cui facciamo il tifo. Questo aspetto della nostra identità è talmente forte da affiancarsi di diritto, in quanto a rilevanza attribuita nella strutturazione del nostro senso del sé, all’identità politica, a quella religiosa o familiare.
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L’effervescenza legata al tifo può essere così profonda e sprigionare emozioni così robuste che il legame con la squadra assume i toni di un vero e proprio sentimento amoroso. Con un livello di lealtà che teme pochi confronti. A esclusione, al massimo, di chi coltiva più che altro tiepide simpatie calcistiche, è sicuramente più semplice cambiare partner, abbandonare il proprio credo religioso che cominciare a tifare per una squadra diversa. Nella propria vita si possono avere momenti di maggiore o minore attaccamento ed eccitazione per il proprio club, ma modificare le proprie preferenze è circostanza inverosimile, specie se ormai il senso di appartenenza si è radicato nel tempo.
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I tifosi non sono semplicisticamente affezionati alle sorti di undici giocatori su un terreno di gioco ma sentono di far parte di un’unità più ampia – che comprende loro, la squadra e tutti coloro che gravitano attorno ad essa. Si avverte di appartenere ad un’estesa comunità di affiliati o volendo, mutuando i termini di John Turner, ad un “gruppo psicologico” (Turner, 1984), con cui si condivide l’identità e con cui ci si sente solidali
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A entrare in gioco, in definitiva, è l’ideale della comunità. Si condividono emozioni, affetti, sogni, traguardi, una visione delle cose, delle memorie ed una storia – che è in larga misura quella del club, spesso piena di toni lirici, mitizzazioni e personaggi o eventi resi leggendari. È l’idea di partecipare a questo universo di significati comune che crea quel legame spirituale che ci fa dire di essere napoletani, romanisti, laziali, milanisti come se si fosse parte di una famiglia solidale. Questo corpo unanime composto dal club e dai supporter diventa il “Noi” – l’in-group – verso i cui membri si prova un senso di lealtà e genuini atteggiamenti di simpatia e fiducia.
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La partita di calcio allo stadio è una “cerimonia sentimentale” il principale rituale sociale […] che coinvolge i tifosi appassionati in un evento collettivo a elevato contenuto drammaturgico
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Le partite di calcio – come ogni altro spettacolo – non hanno tutte lo stesso valore sportivo e simbolico. Per questo il pubblico varia in funzione di fattori non economici
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Il calcio appassiona, genera interesse e cattura l’attenzione di un pubblico esteso e diversificato; agisce nella definizione di identità e appartenenze – individuali e collettive – e struttura pratiche e rituali sociali. Per questo il calcio è un veicolo che opportunamente impiegato può orientare il consumo.
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