Molti avevano taciuto soffrendo, io no. Non potevo esclamare: finalmente resistiamo. Né avrei potuto gridare un giorno: «Io c’ero». Io mi ci sono trovata. Non ho glorie da sventolare, non ho chiesto il diploma di partigiana che mi hanno mandato. Poco ho fatto e con fatica ed errori. Il 25 aprile capivo l’umore dei partigiani che erano scesi a Milano; appena sfilati i leader, Ferruccio Parri e Luigi Longo in testa, i discesi dalle montagne stazzonati e malmessi, allegri, sedettero per terra, straccio rosso attorno al collo, e non si alzavano per salutare la bandiera.
Ho avuto spesso paura. Le scelte obbligate sono serie. Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in un’avventura di molti, accettando di fare e andare dove mi era detto, non molto, nulla di impossibile; il piú era ripetere gesti e strade ignorando se qualcuno mi osservava, sapendo di contar poco e però sussultando davanti ai proclami di Kesselring, freschi sul muro, che mi informavano come per meno del niente che facevo sarei stata impiccata. Essere impiccata mi faceva orrore, li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate. Non li posso guardare, non ho retto neanche i corpi appesi per i piedi a piazzale Loreto. Non era la morte, alla quale ci si abitua a testa bassa come a qualcosa che c’è sempre stato. È che la morte si può guardare finché porta ancora una traccia di chi era vissuto – come a Milano il mucchio di fucilati in una piazza vuota di terrore, stesi, accatastati, con le sentinelle tedesche e italiane che andavano su e giú, li tennero là per un giorno d’afoso agosto a mo’ di esempio. Avevano le bocche e gli occhi spalancati, erano sfiniti, creature stroncate e che l’abbandono della vita faceva stanchissime. Nessuno si avvicinava, erano noi, ci si sentiva nientificati, era come rinnegarli, si sarebbe dovuto metterglisi accanto, gridare «anche io» e aspettare la fine.
C’era una beceraggine nelle fotografie che «Il Popolo d’Italia», «La Sera» sbandieravano sulle esecuzioni dei banditen; accanto ai morti, agli appesi, i tedeschi non ridevano, i fascisti sí. Serpeggiava negli italiani una risata plebea, fatta di secoli di servaggio. O forse vedevo solo quella, l’Italia mi doleva. Le idee mi si confondevano – magari in circostanze normali gli stessi sarebbero stati brava gente, labile è il confine fra quel che si è e quel che si vien fatti.
ROSSANA ROSSANDA*LA RAGAZZA DEL SECOLO SCORSO