«C’è stato qualche altro caso di malattia mentale nella vostra famiglia?». Lapenna di Mr Parr indugia sopra la casella Sì/No del questionario; mio padre,che lascia rispondere me, abbassa gli occhi sul suo cappello e tace.«No» dico io, sicuro, e papà si rigira il cappello tra le mani.«Comunque,» prosegue Mr Parr garbato, ma, come sappiamo tutti e tre,con più tatto che sincerità «la depressione non è proprio una malattia mentale. Ne vedo tanta…».Mr Parr ne vede tanta perché è l’assistente sociale dei servizi di salute mentale del distretto di Craven, e questa sera di fine settembre 1966 io e papà siamo seduti nel suo ufficio spoglio con il pavimento di linoleum, sopra lastazione di polizia di Settle, a spiegargli di mia madre.«Quindi non ci sono precedenti?».«No» rispondo tranquillo, senza esitazioni. Dopotutto in famiglia sonoio quello che ha studiato. Sono stato a Oxford. Se ci fossero stati«precedenti», lo saprei. «No, non è mai successo nulla».«Be’,» interviene papà, e l’informazione è destinata tanto a me quanto aMr Parr «una volta in effetti ha avuto qualcosa. Appena prima di sposarci». Emi guarda con aria contrita. «Ma era più una faccenda di nervi. Diversa daquesto».Il «questo», diverso dall’altro, era un improvviso, sconcertantemutamento della personalità di mia madre. Nel giro di qualche settimanaaveva perso tutta la sua vitalità e tutto il suo spirito diventando irritabile,apprensiva, refrattaria ai ragionamenti e alle rassicurazioni. Di giorno ingiorno il suo umore si faceva più nero, accompagnandosi a fantasie efissazioni: la casa era spiata, mio padre doveva parlare sottovoce perché c’era qualcuno sul pianerottolo, la tazza del water (sempre centrale nella sua concezione del mondo) veniva monitorata ogni volta che si tirava lo sciacquone. Aveva iniziato a dormire con la borsetta sotto il cuscino, come se si trovasse in un albergo sconosciuto e pericoloso, finché una volta era scappata di casa in camicia da notte. Papà l’aveva ritrovata per strada ed era riuscito a riportarla indietro solo dopo una certa resistenza.A Leeds, dove i miei avevano sempre vissuto, questo comportamento sarebbe potuto passare inosservato. Invece la depressione di mamma iniziò quando si trasferirono in un minuscolo villaggio nella zona dei Dales – lì si conoscevano tutti, e perciò la sua condotta non poteva rimanere nascosta.
ALAN BENNETT* UNA VITA COME LE ALTRE
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«Il dottore le ha dato delle pasticche,» disse papà al telefono «solo che non funzionano». Le pasticche funzionavano di rado, anche quando si capiva in anticipo che cosa stava per succedere e si interveniva presto. La crisi si apriva con mamma che si sedeva su sedie insolite: lo sgabello di sughero in bagno, la sedia di ferro nell’ingresso, che era lì solo per bellezza e che nessuno usava mai se non per appoggiarci l’ombrello. Ammutolita dall’infelicità e dall’angoscia, si appollaiava in corridoio e mi faceva segno di non entrare nel salotto vuoto, perché c’era qualcuno.«Non devi dirlo a nessuno…» sussurrava.«Non devo dire a nessuno che cosa?».«Quello che ho fatto».«Non hai fatto nulla».«Ma tu non glielo dirai, vero?».«Mamma!» sbottavo, esasperato, ma lei mi copriva la bocca con lamano indicando la porta del salotto, dopodiché su un foglio scriveva PARLANO a lettere tremolanti, scrollando la testa senza fiatare.Con l’andar del tempo queste inutili conversazioni diventarono menoconfidenziali e meno affettuose. La loro topografia si espanse notevolmente: spesso i due protagonisti non erano nemmeno in stanze attigue. Papà sedeva davanti al caminetto in salotto mentre mamma, in lacrime, stava piantata sulla soglia della dispensa. In mezzo c’era la cucina, vuota.
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Si potrebbe obiettare che la pazzia non c’entrava; che, come aveva detto Mr Parr, si trattava di depressione, e quindi di una cosa assai diversa. Ma per quanto ci aggrappassimo alle sue parole, era difficile non considerare folli le fissazioni di mamma, e la tenacia con cui vi si attaccava, le difendeva e vi insisteva era l’essenza stessa dell’irrazionalità. Forse era ingenuo da parte nostra aspettarci che riconoscesse di essere malata o che era anormale
starsene immobile come una statua sul pianerottolo per ore e ore. Ma era il suo implacabile proselitismo a rendere insopportabile il suo comportamento.
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«Fosse per me, non ci baderei,» diceva papà «ma lei cerca sempre di portarmi sul suo terreno». Mio padre non percepiva le assurdità di mamma come sintomi della malattia, e quindi non aveva altro rimedio che il buonsenso.«Te lo sei sognato!» diceva spalancando la porta dell’armadio. «Dov’èquesto tizio? Fammelo vedere! ».Secondo lui l’assenza del fantasmatico intruso avrebbe dovuto intaccarela certezza di mamma, convincerla del suo errore. Invece mamma, con undito sulle labbra (adesso l’uomo nell’armadio era misteriosamente migratonel bagno), lo trascinava alla finestra per indicargli il furgone del pescivendolo, e lo guardava con spaventevole sicumera, addirittura con aria di trionfo. Papà vedeva certo che il destino da lei temuto, qualsiasi esso fosse,li avrebbe presto inghiottiti entrambi
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Eppure il medico e tutti gli altri continuavano a dire che la depressione era diversa dalla follia. Sarebbe passata. Sarebbe tornata la luce. Ma quando?
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Seguendo il regolamento e le sue crudeltà, dopo l’accettazione leavevano fatto il bagno e lavato i capelli senza pettinarglieli e farle la piega,quindi ora le stavano tutti ritti, come un’aureola delirante. Eccola arruolata tra le fila dei dementi. Il cambiamento era così drammatico, la cancellazionedella sua persona così completa e assoluta, che riportarla anche a unaparvenza di normalità appariva impossibile. Era pazza perché aveva l’aspettodi una pazza.Papà si sedette accanto al letto e le prese la mano.«Walt, che cosa mi hai fatto?» disse lei.«Su, Lil» disse lui, e le baciò la mano. «Su, amore».E con quel bacio e quel chiamarsi per nome i miei genitori si mostrarono spogliati di ogni difesa. Perché loro si baciavano di rado. Erano una coppia tenerissima e affiatata, ma non avevo mai visto mio padre fare
una cosa così intima come baciare la mano a mia madre, e da quand’ero bambino li avevo uditi raramente chiamarsi per nome. Io e mio fratello lichiamavamo «mamma» e «papà», e loro facevano lo stesso tra loro, riservando il nome di battesimo alle occasioni migliori. O alle peggiori.
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