Tutti i giorni la stessa cosa.
Arrivo al lavoro e mi travolge come un’onda di disperazione, come un suicidio, come un vuoto che m’invade, come l’ustione di una pallottola nella tempia.
Un lavoro troppo conosciuto, una sala macchine abbagliata dai neon e dei colleghi che certi giorni non si ha proprio voglia di ritrovare.
Neppure il coraggio di cercare un altro lavoro. Troppo tardi. Tempo fa avevo cercato, avrei potuto fare l’infermiere all’ospedale psichiatrico, prof al liceo tecnico, e poi no, mancanza di coraggio per cambiare vita. Questo lavoro non mi ha mai soddisfatto, eppure non mi ci vedo più a imparare altre cose, altri gesti. Si va avanti, ma non ci si abitua. Parlo al plurale perché non sono il solo ad avere questo stato d’animo: siamo tutti nella stessa barca.
Siamo arrivati a sperare che l’azienda chiuda. Sì, che delocalizzi, che ristrutturi, che aumenti la sua produttività, che abbassi i costi fissi. Smettere, insomma. Basta con questo lavoro, essere liberi. Liberi, ma senza altre preoccupazioni.
Sappiamo che arriverà, ce l’aspettiamo. Come per il tessile, per le fonderie… un giorno l’industria chimica pesante non avrà più diritto di cittadinanza in Europa.
Nessuno parla di questo malessere che investe gli operai che hanno superato la quarantina e che non sono più motivati da un lavoro fatto per troppo tempo, per troppo tempo subito. Un lavoro che si è dovuto salvaguardare perché c’era la crisi, la disoccupazione e bisognava essere soddisfatti d’avere l’impiego garantito, per poter continuare a consumare a scapito di vivere.
Nessuno ne parla. I sindacati lo nascondono, i padroni ne approfittano, i sociologi del lavoro non se ne interessano: i proletari non fanno notizia.
Abbiamo dato il cambio alla squadra del pomeriggio, felice di lasciare il reparto. È il nostro turno, adesso, per otto ore.
Siamo seduti in mensa, attorno a una tazza di caffè. I cucchiaini girano fiacchi, abbiamo tutti lo stesso stato d’animo e anche, di già, la stessa fatica di fronte a questa notte che sarà lunga. Chi parla dell’inferno operaio? Non tanto per la fatica, ma per tutta questa vita consumata, una vita già troppo breve che il lavoro salariato logora ancor più.
Jean-Pierre Levaray* MALEDETTA FABBRICA
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“Non c’è nulla di più stupido che morire al lavoro”, mi dice Pascal. Acconsento.
Questa sera il reparto si svuota in fretta. Tutti gli operai che si occupano delle riparazioni alle macchine hanno incrociato le braccia. Non è uno sciopero, solo il disgusto. Qualsiasi altro operaio avrebbe potuto ferirsi al posto suo. Questa sera i caporeparto e i caposquadra non chiederanno di fare gli straordinari.
La fabbrica è la morte. Da quando lavoro qui ce ne sono stati di morti, d’incidenti. Anche se, col tempo, si sono ridotti e i sistemi di sicurezza sono stati migliorati. Ogni volta è un dramma. Un interinale stritolato dagli ingranaggi, la vigilia di Natale; due saldatori che avevano fatto troppo bene il loro lavoro su una cisterna che esplode; l’elettricista fulminato sul trasformatore… Senza contare i compagni che hanno perso un occhio a causa di un getto d’acido, le dita nelle macchine, bruciate da qualche prodotto o dal vapore, le malattie professionali e non che compariranno tra qualche anno, e i suicidi, troppo numerosi.
La fabbrica è il luogo della non vita per eccellenza (salvo, forse, durante i periodi di lotta, sempre più rari tra l’altro). Ci si dimentica di se stessi, ci si perde, ma ci si muore pure. Se si volesse fare un monumento ai caduti sul lavoro, ogni fabbrica avrebbe la sua stele.
Jean-Pierre Levaray* MALEDETTA FABBRICA
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