la guerra ha ovunque lo stesso volto disumano: colpisce alla cieca anche gli innocenti, come se tutti fossero soldati in prima linea.
***
Il fronte è dappertutto, i rastrellamenti sono all’ordine del giorno. Tedeschi e fascisti arrestano gli uomini per inviarli nelle industrie belliche in Germania e per togliere di mezzo quelli sospettati di fiancheggiare i partigiani.
Un giorno Santina sente il rumore di un autocarro che si ferma sotto casa, sullo stradone per Bergamo. Si affaccia alla finestra e vede che sono tedeschi. C’è anche una camionetta, con un ufficiale ritto in piedi che urla ordini. I militari smontano svelti dal camion, le armi in pugno, e di corsa si dirigono verso la cava, al di là della strada.
Sono SS.
Poco dopo, da una delle gallerie escono due ragazzi con le braccia alzate. Sono i figli di Carolina, che abita nella casa di fianco alla cava. Carolina non assiste alla scena; è andata al lago a fare il bucato.
Santina vorrebbe togliersi dalla finestra, ma resta lì impietrita a guardare.
L’ufficiale continua a urlare. I due ragazzi hanno il terrore negli occhi. Li mettono contro un muro e li abbattono con una sventagliata di mitra. L’ufficiale si avvicina ai due corpi, toglie la rivoltella dalla fondina e impassibile spara un colpo alla nuca, prima a uno, poi all’altro.
Le SS si dividono in gruppi e iniziano a perquisire le case intorno.
Quando entrano in quella di Santina, la trovano seduta davanti al camino spento, con me in braccio e Cornelia che si nasconde alle sue spalle. Passano di stanza in stanza, guardano dappertutto, sotto i letti, dentro gli armadi. Salgono in solaio, sul tetto, scendono in cantina, escono nell’orto e sfondano a calci la porta del capanno dove Sandro tiene gli attrezzi. Guardano persino dentro il pozzo.
Cercano gli uomini, ma non ne trovano.
E finalmente se ne vanno.
Allora Santina, che ha ancora nelle orecchie i tonfi degli scarponi chiodati, cerca la scatoletta di tabacco Sant’Agostino. Con le mani che le tremano, si fa due prese abbondanti.
Tocca a lei andare incontro a Carolina, per prepararla a quel che l’aspetta. Mi affida a Cornelia ed esce.
***
Fino a che punto si spinge la nostra memoria?
I miei primi ricordi sono vaghi, nebulosi. Quando cerco di afferrarli, diventano fuggevoli ed evanescenti come fantasmi. Ma per una qualche ragione che ignoro, dalla memoria incerta ecco sorgere particolari e circostanze in cui mi ritrovo in lucida coscienza. Sono frammenti, eppure continuano a rincorrermi, a circuirmi.
A partire da qui comincia a dipanarsi il filo ininterrotto che tiene uniti gli eventi della mia vita: la memoria diventa tutt’uno col mio “io”.
***
Fa freddo, la coperta è morbida e calda. Si sente l’ululare cupo del vento che arriva dal lago, s’impiglia tra gli alberi, ne scuote le fronde, e scende con un lamento giù per il camino, di là in cucina. Sandro, che ormai chiamo “papà Sandro”, è lì vicino a me e mi canticchia una filastrocca:
El gatt soeu’l tècc
el mugna ch’el gh’ha frècc
miaaaauuu!
Io rido e gli chiedo di dirmela ancora. E poi un’altra volta, e un’altra ancora. Finché non mi addormento.
Nella camera da letto ci sono un comò e un grande armadio di legno scuro.
Sul comò, sopra un centrino ricamato, una piccola statua in gesso policromo della Madonna sotto una cupola di vetro: una figura in bianco e azzurro, gli occhi rivolti al cielo.
Ogni sera, prima di mettermi a dormire, Santina, che ormai chiamo “mamma Santina”, mi dice che devo salutare la Madonna, e m’insegna un gesto che faccio con la mano destra, toccandomi la fronte, il petto e le spalle.
«È il segno della croce.»
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Dopo la morte di Cornelia non ho più nessuno che giochi con me. A pianterreno vivono due famiglie con bambini, ma sono tutti troppo grandi e non mi vogliono tra i piedi. Loro vanno già a caccia di lucertole e ramarri, a tirare sassi ai rospi, a cercar nidi di uccelli arrampicandosi sugli alberi, a fare il bagno nudi nel torrente che scende dal Magnodeno.
Così resto solo, quasi sempre sul grande terrazzo coperto, a inventarmi giochi silenziosi.
Rivelo una precoce attitudine al disegno, che diventa il mio gioco preferito. La fase dello scarabocchio dura poco; ben presto i miei disegni si fanno più precisi e accurati, ricchi di particolari.
«El se pèrd via inscé, el Nino» dicono in casa.
Un giorno, mamma Santina torna da Chiuso e dalla borsa della spesa toglie un pacchetto per me. Dentro ci sono un album, una matita, un temperino e una scatoletta di cartone con sei pastelli colorati marca Giotto.
Capisco per la prima volta che cos’è un regalo.
Disegno il mondo attorno a me: mamma Santina e papà Sandro; Rosetta e le altre; il cane Friz e il gatto Ciccio; il treno che vedo passare tra gli orti e i canneti verso il lago, con la locomotiva nera e lo sbuffo che esce dal fumaiolo; le montagne verdi, il cielo azzurro e le nuvole bianche; i vasi di gerani allineati lungo la ringhiera del terrazzo; le galline, i tacchini e le oche giù nel cortile.
Uno dei soggetti più frequenti è il grosso gallo che si chiama Terenzio: l’alta cresta frastagliata, i bargigli carnosi e rossi, il becco giallo, la coda a forma di falce e le piume blu, le zampe con gli speroni. Papà Sandro prende uno di questi miei disegni e lo incolla sul vetro della credenza in cucina.