Secondo una leggendaria pratica tibetana, per purificare il nostro spirito e ritrovare l’equilibrio perduto, occorre camminare nel bosco per tre giorni di seguito in solitudine osservando e ascoltando con molta attenzione quello che avviene intorno a noi. Me ne parlò un vecchio eremita che viveva sull’Himalaya alle pendici della
montagna di Dio.
Era molto anziano, aveva i capelli e la barba bianchi come la neve, gli occhi neri, la fronte piena di rughe.
Dicono che le leggende, dal momento che se ne parla da millenni, hanno qualcosa di vero e
nascondono spesso un mistero. Sono il possibile nell’impossibile.
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Stando a lungo seduto sopra un sasso, con le mani unite sopra le ginocchia e gli occhi fissi nei suoi, ascoltai in silenzio il vecchio saggio.
Mentre stringeva fra le mani il cordone che serviva da cintura per una specie di tunica, bisbigliò alcune parole: era una preghiera silenziosa affinché si avverasse quello che desideravo. Non capivo le parole ma udivo poche sillabe ripetute più volte. I tibetani nelle loro preghiere ripetono continuamente le stesse frasi, con la stessa intensità.
Spesso queste formule sono anche scritte su girandole di carta che continuano a ripeterle al
vento che le sospinge.
«Ogni passo che si muove su questa terra» spiegò poi «dovrebbe essere una preghiera. Il tuo cuore – ogni cuore – ha in sé il potere di un’anima pura che crescerà come fanno gli alberi
se ti abbandonerai a questa esperienza.
«La vita è un bosco senza confini. Devi comprenderla e respirarla.»
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Spesso parlando o scrivendo ci capita di ripetere
cose già dette. Succede anche a me, nei miei libri, di esprimere concetti uguali, simili fra loro come le tavole di legno che formano il ponte da attraversare per andare dall’altra parte. Il ripetere è la regola di un mondo dove le situazioni belle ritornano roteando intorno a noi come foglie sospinte dal vento.
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ogni giorno, durante le lunghe camminate nel bosco, si deve raccogliere una foglia a caso e portarla con sé.
Alla fine dei tre giorni di cammino le tre foglie insieme ci sveleranno un mistero.
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Mi sono ricordato che sin da bambino la gente dalle mie parti diceva che dalle passeggiate nel bosco si può imparare molto di più che dalle pagine dei libri. Chi nel bosco c’era stato lo rispettava per quello che, con la sua purezza, sa infondere nell’animo: era sufficiente assistere alla pioggia di foglie che in autunno cadono nello stesso giorno, dopo essersi messe d’accordo per dire addio agli alberi. Raccontavano anche che in mezzo al verde si celasse il segreto della vita.
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Il mistero ha sempre accompagnato il cammino dell’uomo e l’avventura dell’esistenza non sarebbe così affascinante se ci fosse dato conoscere tutto quello che ci circonda. Siamo arrivati sulle montagne della luna, abbiamo carpito i segreti delle profondità dei mari e la sperimentazione scientifica ha varcato i limiti dell’immaginabile.
Un lungo viaggio di ricerca per poi scoprire che il gene dell’immortalità è racchiuso nel minuscolo corpo di certe mosche.
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Se ci fosse consentito di vivere una seconda volta, forse, non rinunceremmo a cercare di capire il linguaggio degli alberi. Ci abbandoneremmo all’amore per la natura che ogni giorno rimane in attesa di essere ascoltata.
Nella mia terra qualcuno diceva di essersi avventurato nella grande selva, ma non volle mai parlare di ciò che aveva visto. Forse si era imbattuto in qualcosa che desiderava tenere chiuso nel suo cuore.
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Nelle foglie appaiono i segni più mutevoli e fantasiosi che madre natura abbia mai inventato.
La forma è quella di una lamina piatta, larga o allungata, collegata al ramo attraverso il picciolo,
una specie di rametto a volte cortissimo o anche assente. Il contadino custodiva le foglie del bosco: quelle del faggio, della betulla, del pioppo, dei pini e dei lecci: le aveva messe in ordine; le scheletriche raccontavano dell’inverno, dei venti freddi del Nord che penetrano nelle pieghe più nascoste della natura irrigidendo anche i pensieri.
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A volte mi meraviglio che un uomo come me, alla mia età, possa ancora dar credito alle leggende e occuparsi delle foglie. Mi accade da sempre forse perché non sono mai cresciuto e la meraviglia in me non si è ancora spenta. Non sono mai stato un uomo pratico, ho perso molte occasioni e sono rimasto indietro in tante cose,
vivendo soprattutto di illusioni e di sogni. Pensando esclusivamente a me stesso e ai miei ideali svagati ho dato poco agli altri.
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Nessuno accetterebbe di vivere nella siccità del deserto, ma spesso ci lamentiamo anche della pioggia che rende verdeggiante la terra. Desidereremmo essere tutti eterni,
però non siamo capaci di apprezzare il tempo che ci è dato di vivere. In realtà abbiamo smarrito l’unica qualità necessaria per essere felici: la gratitudine verso il Creatore.