Decidere è un po’ morire.
Si perdono delle possibilità che non torneranno quasi mai.
Si perdono dei rapporti, talvolta anche degli amici: c’è un limite di comprensione che allontana quando è venuto il momento di scegliere e non è possibile “tenere tutti dentro”.
Soprattutto, decidere è separarsi, ogni volta di più: dalla propria storia, dalla voglia di continuità, dalle sicurezze degli “stadi intermedi”, dalla felice sospensione in cui tutto sta per succedere e nulla ancora è pregiudicato.
Ogni decisione, in genere, finisce per lasciarci più soli con noi stessi e dunque più esposti: al giudizio, alla condanna, talvolta all’abbandono. Quasi sempre poi la decisione innesca discussioni senza esito sulla sua necessità, sui tempi, sui modi: rimettendo così in questione la nostra capacità di valutazione.
Per tutte queste ragioni si è portati, oggi, a decidere così poco. A rimandare. O, sempre più spesso, a mettere in dubbio, nei fatti, le decisioni che già erano state prese.
E anche perché la decisione è, molto spesso, un fatto di pancia, di emozioni, almeno quanto lo è di testa e di razionalità.
Punto di condensazione terminale di mille fili, la capacità di decidere ha sempre scontato lunghe meditazioni, analisi sfibranti, accumuli di dati e di informazioni, per precipitare poi, in condizioni di stress psicofisico, di estenuazione fra pro e contro, e prendere forma in stati emozionali più liberatori che risolutori.
La rarefazione dei sentimenti e dei percorsi emotivi, peraltro, in pubblico come in privato, ha finito per rendere, paradossalmente, più difficoltosa la presa di decisioni.
La pluralità di opzioni, che le fasi di transizione sembrano offrire, in realtà mette alla prova soprattutto la tenuta psicologica delle persone e la loro capacità di orientamento.
Finisce, cioè, per confermare o meno la loro affidabilità.
È singolare e istruttivo, allora, guardare gli sbandamenti che si producono; la rapidità con cui si cambia bandiera; la penosa ricerca di riconoscimenti che mettono in campo identità proteiformi e contorcimenti sentimentali.
Una vera e propria commedia dell’arte.
Rispetto alla quale diventa quasi impercettibile il travaglio di quanti, ostinatamente, vogliono capire, senza consegnarsi inermi alla resa o, sull’altro versante, ad una ottusa resistenza.
Governare la sconfitta è persino più difficoltoso che appropriarsi della vittoria, proprio perché, diversamente, gioca un sentimento così obsoleto come quello della vergogna.
La cultura della vergogna è un valore sempre meno spendibile nel traffico confuso che la transizione propone tra scambi impropri e multiple alleanze.
È più facile espiare una colpa: rispetto alla quale, se si è disposti a riparare in eccesso, anche i nuovi vincenti saranno sempre pronti a chiudere un occhio.
Ecco, dunque, perché il problema alla fine non è da che parte stare, con una decisione che sarà sempre opinabile; ma piuttosto quale dignità salvaguardare.
Di molte dignità decadenti si rende conto nei capitoli che seguiranno.
Pier Luigi Celli, Breviario di cinismo ben temperato