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Quando cadde la notte in pieno giorno a Barcellona e si scatenò quel temporale di pioggia e vento, Federico Mayol, che aveva passato una settimana sull’orlo dell’abisso e che quel pomeriggio girovagava senza meta, non poté far altro che rifugiarsi in un bar di plaza Letamendi, mentre mormorava la parola “disperazione”. Nel bar, si disse che era giunta l’ora di affrontare una volta per tutte la situazione catastrofica in cui si era venuta a trovare la sua vita da quando la moglie, una settimana prima, gli aveva detto nell’oscurità della cucina:
— Se non ti temessi tanto, se il mio carattere fosse più forte, adesso oserei dirti quanto mi piacerebbe…
Mentre sgranava piselli nella cucina bagnata dalla luce dell’imbrunire, si era interrotta proprio per il timore che aveva del marito e lui allora, con aria di sufficienza, le aveva ordinato di continuare.
— Va bene, — disse, guardando assorta i piselli cadere ritmicamente nel recipiente di porcellana — l’hai voluto tu, caro. Adesso ti direi quanto mi piacerebbe che ti allontanassi da me, che te ne andassi da questa casa per sempre e mi lasciassi sola. Sì, ti direi questo. Vattene Federico. Lasciami sola, voglio sapere chi sono, ne ho bisogno.
Pensò che scherzasse, anche se era molto strano sentirla parlare in quel modo. Si chiese se non fosse ubriaca, ma era improbabile perché non aveva mai bevuto in vita sua. Cercando di calmarsi, arrivò alla conclusione di trovarsi semplicemente di fronte a uno di quegli scatti di lieve malumore in lei molto rari.
— Ho sentito bene? — disse con un tono di voce un po’ malinconico che da sempre usava per mantenere di fronte a lei il controllo delle situazioni.
A Federico Mayol — Mayol per gli amici — ciò che più piaceva della casa, la sua seconda dimora, era il luogo in cui si trovavano in quel momento, uno spazio senza nome, qualcosa di simile a un cortile parzialmente coperto, tra la cucina e il giardino, che avevano ammobiliato poco a poco. Lì si sentiva piuttosto felice perché, tra le altre cose, poteva contemplare l’orto che lei gli aveva chiesto di avere quando per loro sarebbe arrivata la vecchiaia.
— Ripeto. Ho sentito bene? — disse Mayol aumentando il tono intimidatorio.
Ottenne il contrario di quanto voleva. La moglie, forse spinta dalla stanchezza di aver sopportato per tanti anni quella voce minacciosa, reagì con rabbia, all’improvviso perse un po’ della sua paura.
— Certo che hai sentito bene. Finora te l’avevo solo suggerito, ma adesso lo esigo. Voglio che te ne vada da questa casa e da quella di Barcellona. Da tutte e due, hai capito? Voglio che mi lasci in pace.
— Ma sei impazzita?
Lei guardò malinconicamente l’orto. Poi, parlando piano, mentre cercava di dominare la paura che ancora le era rimasta in corpo, disse:
— So benissimo quello che dico. Hai sempre pensato che in amore non amare molto fosse un modo sicuro per essere amati. E ti sei sbagliato, mio povero Federico. Anche se tardi, me ne sono resa conto. Voglio che tu esca dalla mia vita, ci ho pensato molto, voglio rimanere sola, ne ho bisogno.
Mayol la guardò sforzandosi di credere che fosse tutto un incubo irreale. Lei rimase assente, rilassata dopo le ultime parole, con la serenità di un fiume tranquillo e profondo, imperturbabile in tutta la sua estensione di fronte al tramonto. In silenzio guardò oltre l’orto, verso la luce più lontana del crepuscolo dove forse vedeva riflesso il tramonto del suo matrimonio.
— Ma ragioniamo un attimo, Julia. Dimmi che stai scherzando. Che lo fai perché ti annoia sgranare piselli.
Queste ultime parole dovettero sembrarle un’umiliazione. Reagì con violenza.
— Come te lo devo dire? Vedi di lasciarmi in pace. Voglio godermi in libertà i pochi anni di vita che mi restano.
La sera prima avevano festeggiato a Barcellona le nozze d’oro e neanche la mente più perspicace avrebbe potuto intuire che il giorno seguente avrebbe avuto luogo una simile scena coniugale. Era sempre stata un esempio di moglie fedele, e in ogni momento, per mezzo secolo di matrimonio, perfetta madre cristiana dei suoi tre figli e sposa ideale, una donna discreta ed elegante che aveva dedicato tutta la sua vita a Mayol.
– Lo so cosa succede. Sei impazzita qui in campagna. Be’, te l’avevo detto. Come saremmo stati bene se fossimo rimasti tranquillamente a Barcellona a parlare di quello che è accaduto ieri. O è per via delle lattughe? — Da giorni trascinavano una discussione stupidissima per colpa di certi cespi di lattuga che lei aveva seminato in uno spazio libero tra le piante di melanzane, senza pensare che ai maggiolini le foglie di melanzana sarebbero piaciute ancor di più di quelle di patata. Per colpa delle lattughe non si poteva fumigare con l’arsenico. – Certo, è per via delle lattughe. Be’, Julia, non sono disposto a continuare la discussione. Magari fossimo a Barcellona e non qui a sgranare piselli e a guardare di continuo quest’orto di merda.
— I pochi anni che mi restano — disse lei con parole che apparivano molto meditate, tremendamente serie — voglio godermeli in libertà. Sono stata troppo legata a te, a tutte le tue decisioni, al tuo egoismo. Guardami se puoi. Non ho una personalità, ho solo un orto e, come se non bastasse, ti metti a insultarlo. Ho solo un povero orto e sono un triste vaso da fiori vuoto. Sarai contento. Non so chi sono: questa è l’unica realtà. E soprattutto non so che donna avrei potuto essere se non fossi stata tutta la vita al tuo servizio. Ho deciso, nei pochi anni che mi restano, di provare a capire chi sono realmente, o perlomeno, chi avrei potuto essere e non sono stata. Ne ho bisogno.
ENRIQUE VILA MATAS, IL VIAGGIO VERTICALE