FERNANDO PESSOA, Aforismi Fernando Pessoa Citazioni Poesie Pessoa Frasi Celebri Pessoa Frasi Famose Pessoa, FRASI PESSOA!
Poesie Celebri di Pessoa Raccontate in frasi Famose e significative!
Guarda i suoi libri…
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Poesie Celebri di Pessoa Raccontate in frasi Famose e significative!
Guarda i suoi libri…
Mai per quanto viaggi, per quanto conosca
l’uscire da un luogo, il giungere a un luogo, conosciuto o sconosciuto,
perdo, partendo, giungendo, e nella linea mobile che li unisce,
la sensazione di brivido, l’ansia del nuovo, la nausea
-quella nausea che è il sentimento che sa che il corpo possiede l’anima.
Trenta giorni di viaggio, tre giorni di viaggio, tre ore di viaggio-
Sempre una certa afflizione s’insinua infondo al mio cuore.
30.MAI, FERNANDO PESSOA, Un’affollata solitudine.
***
Nella casa di fronte a me e ai miei sogni
che felicità c’è sempre!
Vi abitano persone sconosciute che ho già visto senza vedere.
Sono felici, perché esse non sono io.
I bambini, che giocano sugli alti terrazzi,
vivono tra vasi di fiori,
eternamente, senza dubbio.
Le voci che salgono dall’intimità domestica
cantano sempre, senza dubbio.
Sì, devono cantare.
Quando è festa qua fuori, è festa là dentro.
E così deve essere laddove tutto si adatta:
l’uomo alla Natura, perché la città è Natura.
Che grande felicità non essere io!
Ma anche gli altri non penseranno così?
Quali altri? Non ci sono altri.
Quanto pensano gli altri è una casa con la finestra chiusa,
o se si apre,
è perché i bambini possano giocare sulla veranda inferriata,
tra i vasi di fiori che non ho mai visto quali fossero.
Gli altri non sentono mai.
Chi sente siamo noi,
sì, tutti noi,
perfino io, che ora non sento più nulla.
Nulla ? Non so…
Un nulla che fa male …
56. NELLA CASA DI FRONTE, FERNANDO PESSOA, Un’affollata solitudine.
***
Vorrei avere il tempo e la quiete sufficienti
per non pensare a cosa alcuna,
nè per sentirmi vivere,
per sola saper di me negli occhi degli altri, riflesso.
19. VORREI, FERNANDO PESSOA, Un’affollata solitudine.
La vita è per noi ciò che in essa immaginiamo.
Per il contadino per il quale il suo campo è tutto, quel campo è un impero.
Per Cesare il cui impero gli sembra ancora poco, quell’impero è un campo.
Il povero possiede un impero; il grande possiede un campo.
In realtà non possediamo altro che le nostre sensazioni;
su di esse, dunque, dobbiamo basare la realtà della nostra vita,
piuttosto che su quello che esse vedono.
FERNANDO PESSOA, IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
Le confesso che sono stanco dell’Universo.
Sia io che Dio dormiremmo volentieri un sonno che ci liberasse dall’incombenza trascendente di cui, non sappiamo come, siamo stati investiti.
Tutto è molto più misterioso di ciò che si giudica, e tutto questo, Dio, l’universo, e io – è solamente un angolino inventato della Verità inattingibile.
– Fernando Pessoa- l’ora del Diavolo.
Non sapendo credere in Dio, e non potendo credere in una somma di animali, sono rimasto, come altri a margine delle genti, in quella
distanza da tutto ciò che comunemente è chiamato Decadenza. La Decadenza è la perdita totale dell’incoscienza; perché l’incoscienza è il
fondamento della vita. Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Sappiamo bene che ogni opera è necessariamente imperfetta, e che la meno sicura delle nostre contemplazioni estetiche sarà quella di cui
scriviamo. Ma tutto è imperfetto, non c’è tramonto così bello da non poterlo essere di più, o brezza lieve che invita al sonno che non possa
favorire un sonno ancora più sereno. E così, uguali contemplatori delle montagne e delle statue, godendo dei giorni come dei libri, sognando
tutto, soprattutto, per trasformarlo nella nostra intima sostanza, procederemo anche a descrizioni e analisi, che, una volta fatte, diventeranno
cose estranee, che possiamo assaporare come se ci giungessero sul far della sera.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Considero la vita una locanda, dove devo fermarmi fino all’arrivo della diligenza dell’abisso. Non so dove mi condurrà, perché non so niente.
Potrei considerare questa locanda una prigione, perché in essa sono costretto all’attesa; potrei considerarla un luogo in cui socializzare,
perché qui mi ritrovo insieme ad altri. Non sono, però, né impaziente né spontaneamente naturale. […] Mi siedo alla porta e imbevo i miei occhi e orecchi dei colori e dei suoni del paesaggio, e
canto sommessamente, solo per me, vaghe canzoni che compongo nell’attesa.
Per tutti noi scenderà la notte e arriverà la diligenza. Godo della brezza che mi è data e dell’anima che mi è stata data per goderla, e non mi
pongo altre domande né cerco altro. Se ciò che lascerò scritto nel libro dei clienti, riletto un giorno da qualcuno, potrà intrattenerlo nel transito,
andrà bene. Se nessuno lo leggerà, né si intratterrà, andrà ugualmente bene.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Il mondo esterno esiste come un attore sul palco: è lì, ma è un’altra cosa.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Se sollevavo dai libri i miei occhi
stanchi, o se dai miei pensieri sviavo la mia perturbata attenzione verso il mondo esterno, vedevo soltanto una cosa, che mi smentiva ogni
utilità di leggere e pensare, strappandomi ad uno ad uno tutti i petali dell’idea dello sforzo: l’infinita complessità delle cose, l’immensa somma
[…], la prolissa irraggiungibilità degli stessi scarsi fatti che si potrebbero considerare necessari per la formulazione di una scienza
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
È forse arrivata l’ora che io faccia lo sforzo concreto di dare uno sguardo alla mia vita. Mi vedo nel mezzo di un deserto immenso. Parlo di
quello che ieri letterariamente sono stato, cerco di spiegare a me stesso come sono arrivato fin qui.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Ho concentrato e limitato i miei desideri, per poterli perfezionare meglio. Per arrivare all’infinito, e credo vi si possa arrivare, abbiamo
bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito.
Oggi sono un ascetico nella mia religione di me stesso. Una tazza di caffé, una sigaretta e i miei sogni sostituiscono bene l’universo e le
sue stelle, il lavoro, l’amore e perfino la bellezza e la gloria. Quasi non ho bisogno di stimoli. L’oppio ce l’ho nell’anima.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Ma il contrasto non mi opprime – mi libera; e l’ironia che c’è in esso è sangue mio.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
E al tavolo della mia stanza assurda, ordinaria, impiegato e anonimo, scrivo parole come la salvezza dell’anima e mi indoro del tramonto
impossibile di monti alti vasti e lontani, della mia statua ricevuta per mezzo di piaceri, e dell’anello di rinuncia al mio dito evangelico, gioiello
fisso del mio disprezzo estatico.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
La vita è l’esitazione tra un’esclamazione e un interrogarsi. Nel dubbio, c’è un punto finale.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Suppongo di essere ciò che chiamano un decadente, che ci siano in me, come definizione esteriore del mio spirito, quei tremolii tristi di una
stranezza posticcia che incorporano in parole inattese un’anima ansiosa e funambola. Sento che sono così e sono assurdo.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Chi eravamo? Eravamo due o due forme di uno? Non lo sapevamo né ce lo chiedevamo: un sole vago doveva esserci, dato che nella
foresta non era notte. Una vaga fine doveva esserci, dato che camminavamo. Un mondo qualsiasi doveva esserci, dato che c’era la foresta.
Noi, comunque, eravamo estranei a ciò che fosse o potesse essere, eterni camminatori all’unisono su foglie morte, ascoltatori anonimi e
impossibili di foglie cadenti. Niente di più.
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Ogni volta che vedo un gatto al sole mi viene in mente l’umanità. Ogni
volta che vedo qualcuno dormire mi viene in mente che tutto è sonno. Ogni volta che qualcuno mi dice di avere sognato, penso se costui pensi
al fatto che non abbia mai fatto altro che sognare. Il rumore della strada aumenta, come se una porta si aprisse, e suonano al campanello
FERNANDO PESSOA – IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
***
Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.
Finestre della mia stanza,
della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
con il mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
con il Destino che guida la carretta di tutto sulla via del nulla.
Oggi sono sconfitto, come se conoscessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
da dentro la mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’avvio.
Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dall’altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.
Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente.
Dall’insegnamento che mi hanno impartito,
sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa.
Sono andato in campagna pieno di grandi propositi.
Ma là ho incontrato solo erba e alberi,
e quando c’era, la gente era uguale all’altra.
Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A che devo pensare?
Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
E in tanti pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
e la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno,
non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi deliranti con tante certezze!
lo, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano?
No, neppure in me…
in quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -,
sì, veramente alte, nobili e lucide -,
e forse realizzabili,
non verranno mai alla luce del sole reale nè troveranno ascolto?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.
Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non è nato per questo;
sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
e ha cantato la canzone dell’Infinito in un pollaio,
e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me? No, nè in niente.
Che la Natura sparga sulla mia testa scottante
il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli,
e il resto venga pure se verrà o dovrà venire, altrimenti non venga.
Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato tutto il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
più il sistema solare, la Via Lattea e l’Indefinito.
(Mangia cioccolatini, piccina; mangia cioccolatini!
Guarda che non c’è al mondo altra metafisica che i cioccolatini.
Guarda che tutte le religioni non insegnano altro che la pasticceria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolatini con la stessa concretezza con cui li mangi tu!
Ma io penso e, togliendo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita.
Ma almeno rimane dell’amarezza di ciò che mai sarà
la calligrafia rapida di questi versi,
portico crollato sull’Impossibile.
Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo privo di lacrime,
nobile almeno nell’ampio gesto con cui scaravento
i panni sporchi che io sono, senza lista, nel corso delle cose,
e resto in casa senza camicia.
(Tu, che consoli, che non esisti e perciò consoli,
Dea greca, concepita come una statua viva,
o patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e distante,
o celebre cocotte dell’epoca dei nostri padri,
o non so che di moderno – non capisco bene cosa -,
tutto questo, qualsiasi cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invoco
me stesso ma non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con assoluta nitidezza.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le vetture passare,
vedo gli esseri vivi vestiti che s’incrociano,
vedo i cani che anche loro esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio,
e tutto questo è straniero, come ogni cosa.
Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto,
e oggi non c’è mendicante che io non invidi solo perchè non è me.
Di ciascuno guardo i cenci e le piaghe e la menzogna,
e penso: magari non ho mai vissuto, nè studiato, nè amato, nè creduto
(perchè si può creare la realtà di tutto questo senza fare nulla di tutto questo);
magari sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è irrequietamente coda al di qua della lucertola.
Ho fatto di me ciò che non ho saputo,
e ciò che avrei potuto fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno riconosciuto subito per quello che non ero e non ho smentito, e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era incollata alla faccia.
Quando l’ho tolta e mi sono guardato allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo più indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho gettato la maschera e dormito nel guardaroba
come un cane tollerato dall’amministrazione
perchè inoffensivo
e scrivo questa storia per dimostrare di essere sublime.
Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarmi come una cosa fatta da me,
e non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria qui di fronte,
calpestando la coscienza di esistere,
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno stoino rubato dagli zingari che non valeva niente.
Ma il padrone della Tabaccheria s’è affacciato sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo con il fastidio della testa piegata male
e con il disagio dell’anima che sta intuendo.
Lui morirà ed io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.
Dopo un po’ morirà la strada dove fu stata l’insegna,
E la lingua in cui furono scritti i versi.
Morirà poi il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa di simile alla gente
continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa inutile quanto l’altra,
sempre l’impossibile, stupido come il reale,
sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre qualche altra cosa o nè una cosa nè l’altra.
Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso.
Mi rialzo energico, convinto, umano,
con l’intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario.
Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli
e assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero.
Seguo il fumo come se avesse una propria rotta,
e mi godo, in un momento sensitivo e competente
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell’essere indisposti.
Poi mi allungo sulla sedia
e continuo a fumare.
Finche il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
magari sarei felice.)
Considerato questo, mi alzo dalla sedia.
Vado alla finestra.
L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria s’è affacciato all’entrata.)
Come per un istinto divino Esteves s’è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale ne speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso.
FERNANDO PESSOA – TABACCHERIA