ciao fiore…
questa sera, anzi notte, piove e tuona,
ci sono fulmini indisponenti per la libertà che hanno nel muoversi in cielo
curiosando rapidissimi fra le nuvole
e scompaiono.
Creando profili in toni di grigio
fino ad un nero profondo e l’occhio li ferma e ricorda: evocano silhouette
familiari e curiose assonanze,
musica dolce,
note di un viso che ride,
aspra nei toni più alti come sono i pensieri che vanno da soli ad anni lontani,
divengono morbidi, caldi,
e acuta
una nota di donna sorge improvvisa dal buio che pensavi l’avesse
nascosta.
Lui, sì…
Stringi forte gli occhi, sfioralo con un dito e sentirò il tuo tocco.
Sogni dorati.
Gigio
Fulvio lo conosco da quando si aveva sei anni, rosso di capelli, occhi vivacissimi come il suo spirito.
Dopo quasi una vita l’ho ritrovato andando per ricordi fra le strade e i vicoli della città vecchia, a Trieste.
Grazie alle mia memoria visiva l’ho riconosciuto sotto uno spesso strato di anni, ma dopo alcuni minuti è uscito da quel bozzolo ed è tornato ad essere la mia prima giovinezza.
Ci siamo seduti ad un bar, in riva al mare.
Avevamo una infinità di cose da raccontarci: praticamente una vita.
Ma, come può succedere, dopo le prime battute siamo volentieri scivolati sulle nostre esperienze che forse ci avevano più colpiti e poi sul come stiamo vivendo oggi.
Mi racconta così una storia iniziata nell’Aprile dell’anno precedente quando un giorno, anche se un pò di malavoglia, era stato convinto da due coppie di amici ad andare a funghi nelle pinete che si trovano sulle colline a pochi chilometri.
Partiti molto presto ed arrivati sul posto si son subito divisi ed allontanati e così da solo inizia a girellare nell’ombra sempre più fitta ed accogliente, perso un po’ nei suoi pensieri.
Non è un esperto e quindi probabilmente non vede nulla che possa mettere nel cestino.
Ed è solo per la notevole differenza di colore che fra le foglie nota un qualcosa, un prodotto dei boschi che assomiglia tanto ad un fungo dalla larga testa rotonda di color rosa.
Si inginocchia per vedere meglio dove mettere la mano per coglierla e, nel mentre compie il gesto, quel rosa si muove…fa un leggero saltino a lato e si gira dopo un inequivocabile, delicato strillo.
Fulvio resta immobile, mano tesa e senza fiato, nemmeno un “Oh!”
Mi giura che quella piccola “cosa” è una graziosissima giovane”mula” in miniatura, dal cappello rosa a larghe tese che le copre anche le spalle, ma lascia sfuggire dei lunghi capelli color miele ambrato.
E’ scossa ed impaurita, si vede, chi non lo sarebbe al suo posto, e Fulvio si preoccupa subito di sussurrarle parole che la possano tranquillizzare.
A fatica e dopo non poco ci riesce pur non credendo ancora ai suoi occhi.
Mi dice così che quel fantastico esserino si è rivelato essere una fata, una delle ultime rimaste a causa del cambiamento che qulle creature subiscono con il sempre più probabile contatto con gli esseri umani.
Fulvio giura più volte di non rivelare quell’incontro e si danno così appuntamento di lì a pochi giorni ed è ben felice di aver l’occasione di tornarci da solo, se non altro per essere certo di non aver sognato.
Passa del tempo e nasce così un’amicizia fuori dalla realtà e nessuno dei due riesce più a restare lontano dall’altro, tant’è vero che finalmente un giorno lei si fa convincere a seguirlo al suo rientro in città.
Fulvio la tiene nel taschino della camicia e inizia così quella che è la parte più stupefacente di questa avventura.
Giorno dopo giorno nasce qualcosa che assomiglia ad un sentimento da ritenere impossibile essendo per natura esseri così differenti, appartenenti a mondi che nulla hanno in comune, spinti forse anche dalla curiosità di uno verso l’altra e viceversa.
Qui Fulvio scopre però che questa sua piccola compagna inizia a trasformarsi. Se ne accorge quando vede che il taschino non è più sufficiente ad accoglierla: sta crescendo e le sue dimensioni aumentano giorno dopo giorno.
Le loro fughe dalla gente li costringono ad usare contenitori sempre più grandi fino a che prima uno zaino e poi anche una valigia non bastano più.
Non ci si può recare in un bosco, a funghi, con una valigia.
Cerchiamo di essere seri.
Non possono però più lasciarsi, si sentono già troppo legati e lei lascia il suo mondo e si trasferisce in casa sua, lui è solo, non ha mai trovato l’altra metà del suo cielo.
Io son rimasto sempre zitto in ascolto, non volevo interrompere quel suo racconto, ma a questo punto pur sentendo ancora la sua voce ho iniziato a guardarlo con più obiettività. Avevo davanti a me un coetaneo ancora ragazzino, con i capelli più che grigi, le sue lentiggini storiche e la sua immaginazione galoppante. Poco era cambiato. Mi è venuto un groppo in gola di fronte ad una tragica realtà, vedevo e ascoltavo soprattutto dei danni che il tempo aveva causato e mi chiedevo se anche a me stava succedendo la stessa cosa, se anch’io ero visto dagli altri così come vedevo lui.
Mi stavo commovendo ed ascoltavo sempre più attento le sue parole, dette in quel bel dialetto quasi dimenticato e che lentamente ricominciavo ad usare, cercando degli spiragli che mi facessero ricredere sulla sua condizione e senza far trasparirre i miei pensieri.
Fulvio diventa più rapido nel racconto.
Mi narra come quella fata sia divenuta ormai donna e che non lo abbia più lasciato.
Ha sì la contina paura che lei possa scomparire e questo lo spaventa, ma è felice nel poter vivere tutti quei momenti che si sono regalati.
Si interrompe, alza gli occhi guardando alle mie spalle ed è in piedi con un largo sorriso ed è così che lei mi arriva a fianco: alta, capelli lunghi fin sulle spalle, occhi scuri e sul capo un cappello leggero a larga tesa, non più rosa ma azzurro e toni blu, un fiore in organza appuntato …non vedo altro.
Abbasso gli occhi che mi si stavano velando ed i miei piedi affondano fra muschi e foglie umide, chiudo gli occhi e non sento più il salso del mare: resina e dolci sapori freschi.
Resto di sasso, incapace di fare un gesto e dire una parola.
Quella che ho davanti è il sogno della mia vita, è la persona che ho sempre desiderato avere a fianco e quella che ho trovato e vorrei se ne andasse mai.
Non l’ho detto a Fulvio.
Mi avrebbe dato del matto, lui.
E qui mi fermo, non proseguo per ora, devo riordinare le idee e chissà che in un altro momento non possa raccontare anche a te, che mi hai seguito sin qui, come prosegue la storia.
Porta pazienza.
E giovedì prossimo vai a camminare nei boschi stando bene attento dove metti i piedi.
Sotto delle foglie potrebbe esserci la realtà che stai vivendo o, almeno, il tuo sogno.
Ha aperto un libriccino che aveva dimenticato in un cassetto, sotto un mezzo secolo di appunti, vecchi portachiavi e stemmini da appuntare sul berretto da sci, matite e due stilografiche con l’inchiostro ormai secco.
Ha visto che le sue pagine erano bianche.
Sorpreso, ll’ha sfogliato tutto e niente… nemmeno una parola, un segno.
Ha chiuso gli occhi cercando di ricordarne il contenuto ma non gli veniva in mente nulla.
Si è sforzato con la memoria visiva e poi….così, a sprazzi, ha rivisto quello che un tempo aveva scritto.
Ma, come compariva così si scoloriva e veniva sostituito in un turbinio di lettere da altre parole, altri nomi, luoghi…pensieri e ragionamenti.
Ha riletto e ha capito il suo egreto.
Era giusto fosse così e non poteva essere altrimenti.
Da ragazzo in quelle pagine s’era raccontato la storia del suo primo amore, dall’inizio alla fine, con tutto quello che un giovane romantico (tutti così a quell’età, poi…..) vedeva e prevedeva della sua prima esperienza.
Quello che, dicono, non si scordi mai.
C’era proprio tutto, anche la fine.
Ma, adesso, le nuove parole che lo riempivano raccontavano un’altra storia, diversa.
E’ la storia del suo ultimo amore.
Manca ancora una fine.
Quello che ricorderà effettivamente per sempre.
Anche oltre la sua vita.
Nel rovistare fra le scatole ammucchiate in cantina oggi m’è capitato di trovare alcuni fogli di un vecchio libro, di cui quella pagine facevano parte.
E’ bello scoprire cosa è rimasto degli scritti di un qualcuno che non c’è più da tanto tempo.
Lo fai rivivere leggendolo, lo rendi felice.
Qui c’è scritto…
“…queste parole che tu leggi in questo momento della tua vita, ovunque tu sia, entrano nella tua anima e tu non sai che sono io che stai ospitando.
Non mi conosci come io sto iniziando a conoscerti. Sto trasferendomi, per mezzo di queste lettere che non sono altro che la mia, di anima.
Da qui vedo che le tue labbra si muovono e se leggi “labbra” mi stai baciando e non lo sai.
Se io scrivo “mano”, questa si trasforma in una carezza così lieve che non riesci a sentire.
Ma esistono parole che potrai leggere sentendo questo “brivido” che provi assieme a me, ora.
Sono quelle che vorrei vedere dette da te, non scritte, ma sussurrate a questo foglio: non aspetta altro che sentirtele dire.”
Qui finisce quella pagina…
Peccato, avrei voluto sapere chi era la lettrice, ma se anche lo sapessi, manterrei il segreto
Le usiamo in tutti i momenti, da piccoli fino ad oggi, qualsiasi sia l’età
Lo so che ho detto una sciocchezza, ma quante se ne dicono nella vita?
Quante hanno cambiato il corso di avvenimenti, importanti e no. Tutti i giorni.
Parole che non hanno tenuto conto dell’onda di emozioni che potevano far nascere.
E le parole che non sono mai state dette, allora.
Le peggiori, per essere rimaste in gola e non essere nemmeno state degne di un commento o di una critica.
Perchè siamo stati vigliacchi? O per essere stati prudenti o gentili.
Uguali alle altre che comunque avranno un seguito nel sentire, giudicare, odiare.
Vorrei non poter parlare, alle volte.
Vorrei che fossero gli occhi ad esprimersi, anche quando sono resi ciechi dalla distanza.
Uno sguardo non ti allontanerà mai.
Una parola può distruggere.
Solo uno sguardo può correggere quello che la lingua ha danneggiato.
Vita mia, lascia che io ti guardi.
Fino a quando, finalmente, non ci sarà più che un sospiro.
Questa mattina per caso o per destino ho scritto due parole: “occasioni perdute”.
Non le ho dimenticate per tutta la giornata ed ogni tanto mi tornavano in mente. Il perchè non lo sapevo, al momento nemmeno ora pensando solo a quei due termini.
Ippocampo.
E’ quella formazione nervosa che controlla il mare della nostra memoria. I protagonisti invertono la loro posizione nella rappresentazione di una vita.
Così torna alla mente in un atomo di tempo “Stargate”, con i personaggi che si immergono in una parete verticale liquida leggermente increspata e vengono così scomposti e trasportati nello spazio, nello scorrere di pochi fotogrammi, fino ad un pianeta sconosciuto dove continuerà la loro avventura.
Quello svolgersi del cordone ombelicale simile ad una struttura cromosomica mi appare prima del ricordo improvviso che si staglia limpidissimo ed io sono là.
E’ un luglio di…un’altra vita. Periodo di esami di stato ed eravamo stanchi dello studiare da lei o da me e così si decise di andare sulle colline vicine.
Oggi so ancora come successe.
Una pausa: io una sigaretta, lei non fumava.
Eravamo seduti ai limiti della pineta con la Valpantena ai nostri piedi. Poi si è stesa sul plaid e si continuava a parlare e scherzare.
Ero bocconi, ad ore 3 rispetto a lei (influenza linguaggio militare, Stargate incombe) con la testa vicino alla sua.
Scommettemmo che mi sarei avvicinato anche troppo, ma senza baciarla.
Ho in me adesso quel sapore dell’erba calda, ho quello dei suoi capelli e del suo leggero profumo.
Ho i suoi occhi nei miei: quel verde chiaro che inconsapevolmente vira leggermente ad una sfumatura più scura e diventa una promessa liquida. Un invito ad immergermi.
Ho il ricordo delle sue labbra, ma non il loro sapore.
Gli occhi aperti ci tengono legati, gli sguardi trasmettono metallo fuso, al loro chiudersi entriamo incoscientemente nella dimensione che avevamo già scelto.
Ma era una vita fa.
Un bacio era già un atto d’amore. Avevamo già tutto.
L’occasione perduta.
Quel bacio aveva distrutto un’amicizia che durava da anni senza coinvolgimenti amorosi.
L’aveva ridotta ad un episodio sempre troppo breve e comune per lasciare in lei una traccia.
Io.
Sono qui a pensare che quella stargate si chiuse per il resto della mia vita.
Odo i passi suoi felpati,
stanca, soddisfatta si avvicina.
torna dai sogni dei beati:
la Befana sorride, pallidina.
Depone la borsa sua strapiena
cura amorevole il suo gatto.
Ripone gli avanzi della cena
e pensa al letto suo, disfatto.
Si stende tutta lunga sul divano
e il sonno già la coglie..piano piano.
(Si alza il sipario: cono di luce illumina una sedia e un divano a due posti. La luce cade dall’alto sulla testa lasciando il volto in ombra. Timidezza da protagonismo. La peggiore perchè infida)
Tre giorni. E poi si cambia.
IL tre: che numero magico abbiamo scelto per scaricargli addosso tutte le paturnie di noi umani. Senza ordine logico: La Trinità per prima, Sandokan e la Trimurti, lo Stato e le sue Cariche Istituzionali, le palle del Colleoni.
Forse c’è una logica in questo ultimo accostamento.
Il Buono, il Brutto e il Cattivo.
Il Terzo Polo. Il Partito con il buco in mezzo. O in mezzo ad un buco.
(Pausa con sguardo che abbraccia la platea, da sinistra a destra. Molto politicamente corretto)
Il triangolo con un vertice figo, una leggera per amore (o per scelta/forza) e un coglione.
“Tre son le cose che voglio da te….” la prima…ok, per la seconda lasciami respirare e per la terza…prima una sigaretta. E se non fumi è la volta che devi cominciare.
Mai accendere una sigaretta a tre persone di fila. Nel ’15 -’18 il cecchino alla prima imbracciava il fucile, alla seconda puntava e il terzo ci rimetteva la buccia.
I tre giorni del condor. Il tressette col morto. Il morto che parla…e non dovrebbe farlo, a tressette.
Tutto viene ribaltato: il morto sogna.
Sogna di riavere la carne, quella di lei.
Sogna.
(pausa ad effetto)(Ancora uno sguardo attorno. Invito alla complicità)
Rivive in quel sogno, un’altra vita ma diversa. Sennò che motivo c’era di ritornare? Tanto valeva restare……………………………………..(la serie di puntini è opera del mignolo lasciato distrattamente sul tasto. Ma buono come commento. Ho una piccola parte di me che sa cosa vuole. Un mignolo. Roba da matti).
Tre giorni da consumare come fossero gli ultimi di una serie finita.
(Tre passi indietro. Esce dal cono di luce. Un inchino nella penombra)
(Sipario)
Meno Quattro.
Giorni alla fine del 2010.
Stupidissimo anno uguale a sè stesso meno uno.
E così via. Fino all’Era del Bambino.
Che sei stato e che sarai sempre.
Sbattendotene i santissimi coglioni se un dio umano ti vuole far morire come fossi una cipolla, strato dopo strato in ordine inverso.
Ridi e ti strozzi pensando ai seni che hai stretto, alle labbra che hai baciato e al nulla che ti ritrovi fra le mani, giunte in una preghiera che mormori troppo tardi perchè sia esaudita.