La vera eleganza non si compra in boutique, né si ordina su misura. Viene dal cuore e profuma di grazia, cortesia e discrezione.
Viene dalla bocca con linguaggio pulito, in parole attente e prudenti. A volte è autoironica, a volte sa fare silenzio.
Adorna le orecchie che sanno ascoltare pazienti. Si riconosce negli occhi, chiari specchi dell’anima.
Arriva dai gesti, rispettosi, miti e composti. Modesta e solare, bella perché semplice.
Esce dalle labbra allenate a sorridere, e magari anche a ridere, se il momento è opportuno.
Cura con dignità l’abbigliamento, senza l’ostentazione e la volgarità del nostro tempo.
Daniele Carraro
Daniele Carraro
Altre riflessioni sul mio blog Pensieri sulla Famiglia. - Sono sposato e papà di 4 figli, appassionato di montagna e di natura. Scrivo per fissare e condividere i momenti semplici e pur straordinari che vivo ogni giorno. I miei pensieri sono dedicati alla famiglia e ad ogni persona in cerca di significato e serenità in questa breve, intensa, misteriosa vita. E' pubblicato il mio libro Pensierini... in famiglia, Astegiano Editore.
…quanto poco tempo viene dedicato alle relazioni importanti, quelle capaci davvero di nutrire lo spirito. Quanti impegni sterili, invece! Ore preziose sprecate, in cui le persone s’incrociano, si sfiorano ma non s’incontrano.
Quanto duro lavoro per affermare se stessi, modellare il proprio fisico, curare cose inutili, lucidare, strofinare, abbellire, invidiare, competere, in una crescente e ansiosa nevrosi che a fine giornata lascia demoralizzati e vuoti.
È come se Cenerentola si preparasse tutta la notte per l’incontro che cambierà la sua vita, ma troppo indaffarata a farsi bella, si ritrovasse ancora lì al mattino, sola davanti allo specchio.
Tratto dal libro Pensierini… in famiglia – Daniele Carraro
A volte li senti rigidi, freddi e spigolosi come la pietra. Ci sbatti contro, non puoi evitarli. Tumefatto e rassegnato ti volti e te ne vai.
Altre volte sono liquidi, squallidi, senza sapore. Vorresti cambiarli, dargli forma o respingerli con forza, ma il tuo pugno non li plasma, la tua mano affonda in una sostanza che non cambia.
Sono alcuni atteggiamenti delle nostre relazioni quotidiane.
Sferzano umiliando come schiaffi, quando sono fatti di figli e di genitori. Fendono e uccidono come spade, quando appartengono alla coppia.
E proprio la coppia è la prima vittima di tanti comportamenti apparentemente innocui, di vari atteggiamenti più o meno distratti verso i bisogni altrui. Nessuno è immune. Neppure io. Lo so bene. Mi fa male. Mi fa paura.
Eppure, ogni coppia all’inizio del proprio rapporto d’amore sogna: una storia romantica che non finisca mai. Spera: un amore coinvolgente che duri per sempre.
E i presupposti per una vita felice ci sono tutti: trasporto e passione, valori condivisi e aspirazioni comuni, un progetto per il futuro e il giusto entusiasmo della partenza.
Poi, arrivano la quotidianità e la noia di tanti gesti ripetuti, mentre i sentimenti lentamente si spengono. Si accendono, piuttosto i ri-sentimenti per ogni parola taciuta, le delusioni di tante aspettative mancate.
Ma cosa succede? Cosa ci ferisce a morte?
Probabilmente, la relazione. Non si cura più la relazione.
Non si cresce più insieme e nella stessa misura. Non si pensa in due. La sessualità si blocca, oppure diventa priva di attenzioni e i corpi cambiano velocemente in pochi anni. Le famiglie di origine, con il loro stile e le loro abitudini, invadono la coppia. Arrivano i figli che sottraggono spazio e tempo. Qualche volta, anche le difficoltà economiche.
Si consolidano fastidiosi atteggiamenti, egoistici e comodi comportamenti. Dopo alcuni anni ci si ritrova lontani, sconosciuti, indisposti e, con rassegnazione, si rischia di decretare la fine di un prezioso e importante rapporto d’amore.
Mi saluta ogni volta con quel suo sorriso sincero e gentile che, come gradito contagio, passa di bocca in bocca mettendo buon umore. La conosco ormai da qualche anno. È poco più che ventenne, ma ha modi educati e atteggiamenti discreti che si direbbero di altri tempi.
Sogna una bella famiglia e desidera una casa tutta sua. Vive con entusiasmo il presente immaginando il futuro. È innamorata e ricambiata.
Con la sua naturale attenzione di sempre, mi chiede come stanno i bambini. Rispondo volentieri e poi domando di lei.
I suoi occhi però si abbassano e si fanno lucidi, la voce inciampa nella gola:
«Non ci vado più da quel medico. Mi ha detto cose troppo brutte. Mi ha parlato di una possibile malattia degenerativa senza nemmeno una diagnosi certa; di sintomi invalidanti senza il conforto di una cura definitiva.»
Anche i miei occhi si abbassano abbattuti da quelle poche parole. Fissano a terra il suo futuro e i suoi progetti che sembrano contrarsi, schiacciati da un’opprimente e buia angoscia, fino ad implodere in un miope presente a cui è stata tolta la possibilità di guardare lontano.
È questa la nostra unica vita, non ci è concesso il bis. Ce la giochiamo tutta qui, sperando in un po’ di fortuna. E, invece, una salute definitivamente compromessa può far crollare ogni nostra precaria speranza, ogni lusinga di realizzante felicità.
Così, si guardano gli altri andare avanti nel cammino ordinario della loro vita, mentre si è avvolti da quel disperato dramma che ferma il tempo e falcia i sogni.
È possibile sorridere ancora pensando al futuro? È possibile trovare serenità in certe difficili condizioni di vita?
Non lo so. Non certo subito e come si aveva finora immaginato. Niente sarà come prima.
Forse, però, si potranno lentamente costruire nuovi equilibri di serenità, trovando risorse impensabili, gustando cose nascoste ai più, scoprendo bellezze e piaceri che prima non si sarebbero saputi scorgere.
Mi ricordo le lunghe ore e i giorni passati in ospedale per assistenza o malattia. In quei momenti ero ansioso di uscire da quella stanza per tornare alla vita di prima. Non tanto per intraprendere i bei viaggi già programmati, salire le vette tanto sognate o lanciarmi in volo libero col parapendio. Mi mancavano piuttosto i momenti quotidiani vissuti assieme ai miei cari: come l’arrivo dei bambini da scuola, il momento di preghiera insieme alla sera, le buffe paroline del più piccolo, l’abbraccio di mia moglie guardando la TV, la pizza assieme agli amici, il ritrovo alla messa domenicale, il calore e i colori della tavola preparata e i profumi della mia cucina. Avevo nostalgia persino del chiasso e delle urla dei miei figli e del monotono e assonnato viaggio in auto al mattino verso il lavoro.
In quegli istanti mi sono persuaso che la felicità potesse essere racchiusa in cose molto semplici se non banali, facilmente accessibili e tuttavia difficilissime da scorgere. Come una chiave di un prezioso forziere cercata in capo al mondo ma nascosta nel portapenne della propria scrivania.
Non è per niente facile fermarsi e guardare la vita con occhi attenti e meravigliati, soprattutto nei momenti di grave sconforto.
Qualche volta mi aiuto facendo una lista su carta di ogni momento vissuto in modo così intensamente semplice e pur speciale. Poi la rileggo e mi stupisco. Perché è per ognuna di quelle cose che è valso la pena vivere quel giorno.
Ogni persona, e così pure il suo futuro, ha significato per i sentimenti e gli affetti che suscita, vive e inconsapevolmente dona e, soprattutto, per ogni relazione, sebbene imperfetta, capace di coinvolgere e segnare chi incontra, a prescindere dalla condizione fisica in atto.
Non so se avrò mai il coraggio di parlare a quella ragazza della felicità e delle mie convinzioni, ma so che stasera assieme ai miei familiari pregherò per lei: ne sento davvero il desiderio e quasi il bisogno. Chiedere il sostegno di Dio, la sua presenza nel mio futuro e, perché no, la possibile guarigione, è sempre la prima cosa che faccio per avere aiuto e speranza di serenità. Ringraziare Dio, poi, per i preziosi momenti vissuti e goduti mi sorprende e mi insegna a dare un preciso nome al segreto della mia felicità.
Daniele Carraro
Metto i sandaletti al più piccolo mentre lui cerca ostinatamente di sfilarseli ancora. Carico in auto l’ingombrante passeggino doppio. Prendo pannolini, biberon, copertina e una bottiglietta di tè per ognuno. Sgrido i due più grandi che si rincorrono in giardino: finalmente salgono, infangando dappertutto.
«Hai preso le felpe?» «Sì, però ho dimenticato il ciuccio.»
Scendo, risalgo. Partiamo.
«Mamma, mi scappa la pipì». Smontiamo tutti di nuovo.
Spostare la famiglia solo per fare quattro passi in città è un’impresa. Lo stesso per prepararci tutti al mattino, o andare a letto alla sera, quando le energie sono già esaurite da un pezzo. Senza parlare naturalmente dei momenti di malattia e difficoltà, vere maratone di lavoro e ansietà.
Affaticato, mi chiedo se questa è vita.
«Sicuro», mi rispondo: queste sono le mie soddisfazioni; e questo è il mio tempo.
Solo alcune decine d’anni (almeno spero) in cui fatico, mi impegno a fondo, ma divento artefice della mia vita. È questo il breve e prezioso tempo a disposizione per costruire qualcosa e dare significato alla mia esistenza.
Quando ero bambino qualcun altro decideva per me. Quando sarò vecchio tante scelte importanti saranno già state prese. Lavoro, impegno sociale, passioni e, soprattutto, moglie e figli sono il frutto di questo tempo fatto di realizzazioni importanti e decisioni talvolta rischiose.
Certo, bisogna essere disposti a rinunciare a qualche piacere e comodità – e non tutti lo sono: poche notti brave e tante notti in bianco, rari viaggi e frequenti soste, tasche vuote e pannolini pieni. Sono convinto, però, che le emozioni facili e i tanto invidiati piaceri moderni siano ben diversi – e ben più fragili – di una profonda e appagante soddisfazione interiore: i primi durano pochi attimi o qualche giorno, lasciandoti alla fine con un pugno di sensazioni vuote; la seconda ti accompagna per la vita, diventando volano di serenità.
Ma per godere di tale soddisfazione so di non poter attendere immobile, posticipando le mie decisioni importanti. Devo scegliere bene e scegliere adesso il mio futuro, scacciando le paure con forza e determinazione, inseguendo ciò che è vita, rifiutando meschini rimedi e pigre scorciatoie.
Devo vivere, consapevolmente e fino in fondo, queste mie stagioni che si alternano cicliche ma uniche, irripetibili anno dopo anno. È questo il momento per interrogarmi e guardare oltre, per osare e scovare Dio.
Ho l’obbligo di sbarazzarmi di quella sciocca ma diffusa illusione d’immortalità che seduce e induce l’uomo adulto a vivere come eterno giovinetto.
Tutto ciò non si limita al cogliere l’attimo per non perdere l’emozione del momento: si rischierebbe in tal modo di chiuderci in uno sterile e vuoto presente, incapaci di guardare al domani. No, bisogna immaginare in ogni istante il proprio futuro (anche a cent’anni) e mettersi a lavorare subito per realizzarlo. È questa la speranza. È questa la sorgente da cui scaturisce l’entusiasmo e la serenità.
E invece, ogni giorno, rischiamo di perdere decisive occasioni nell’indifferenza e nell’inutile attesa, senza notare lo scorrere veloce e continuo dei battiti del nostro cuore. Desideriamo un futuro sereno e ideale, ma non lo costruiamo usando e gustando con saggezza il quotidiano presente. Oppure, siamo assaliti dalla nostalgia del passato, dai ricordi e dalle immagini di tanti bei momenti andati: vissuti ieri, magari, con indifferenza, recuperati oggi come rimpianti e freni del domani.
Guardiamoci in faccia, uomini e donne di questa generazione. Cosa stiamo aspettando?
Lasciamo i timori. Tuffiamoci dentro: è questo, è proprio questo il nostro tempo.
Daniele Carraro
Capricci o voglia di biberon? Fame o male al pancino?
Purtroppo, niente di tutto questo. Febbre alta e lamenti. Ci risiamo. I virus ci hanno invaso di nuovo. Malvagi e astuti, hanno assalito il figlio minore.
Prendo lo sciroppo di tachipirina, sospiro e penso fra me: «Grazie che ci sei. Cosa farei adesso senza di te?» Alle 3:00 del mattino è lecito pensare anche in questo modo.
Le notti successive però scorrono peggiori delle precedenti, con la luce sempre accesa. La febbre continua a salire e l’umore inizia a scendere. Una nuova colonia nemica di batteri è sopraggiunta potente e, dopo un periodo di assedio, ha preso il sopravvento. Alla fine la svolta. Un dolce antibiotico al gusto di fragola risolve in poco tempo la situazione e riporta la pace in famiglia. Viva la medicina e la scienza che mi hanno sollevato da una situazione potenzialmente pericolosa.
Chissà come se la cavavano i miei nonni e bisnonni in situazioni del genere: in piena campagna, senza antibiotici né conoscenze, privi di riscaldamento e paracetamolo. Forse applicavano qualche straccio imbevuto d’acqua fresca sulla fronte. Oppure ascoltavano in penombra i lamenti del figlio, fino al silenzio per sfinimento?
Lascio a voi il triste responso, aggiungendo l’amara certezza che altrove accade ancora. Certo, esiste l’ingiustizia dell’uomo, incapace di essere solidale fino in fondo, e comunque ancora limitato nelle conoscenze e nell’agire. Ci sta il fatalismo di una natura crudele che cerca di salvaguardare la specie e se ne frega del singolo. Ma come la mettiamo con l’apparente e incomprensibile disinteresse di Dio per tante sfortunate famiglie passate e presenti?
Lo chiedo, nel buio della mia camera, al silenzio delle mie ragioni, incapace di chiudere gli occhi e abbandonarmi alla tranquillità del sonno.
La fede che porto in cuore è fatta di tanti dubbi da risolvere e di poche risposte sicure. È ricca d’incertezze e povera di evidenze. Ma sono proprio queste domande sospese che alimentano la mia testarda ricerca di verità.
Perché non si diventa cristiani assumendo facili risposte in pillole preconfezionate o sciroppi di verità addolcite. È quello spirito inquieto di S. Agostino e di altri padri della chiesa che pervade gli animi e riesce ancora a produrre fermento ravvivando la nostra religione. È osservando questo cristianesimo, fatto anche di crudi interrogativi, che qualcuno continua a dire: «finché c’è inquietudine si può stare tranquilli».
Daniele Carraro