Questo libro è una battaglia, perché la cultura non abbandoni la nostra vita e prima di ogni altro luogo la nostra scuola, rendendo il futuro di tutti noi un deserto.
È anche un atto di accusa alla mia generazione, che ha compiuto alcune scelte disastrose e non manifesta oggi il minimo pentimento.
Infine, è la mia personale preghiera ai giovani, perché scelgano loro, in prima persona, la vita che vorranno, ignorando ogni pressione, sociale e soprattutto famigliare. E perché, in un mondo che li vezzeggia, li compatisce, e ne alimenta ogni giorno il vittimismo, essi con un gesto coraggioso e rivoluzionario si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no, sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno quarant’anni ci governano e ci opprimono.
Paola Mastrocola, Togliamo il Disturbo
Ci sono norme dell’interazione sociale che non hanno neanche bisogno di essere scritte tanto sono scontate: non si inzuppa la propria brioche nel cappuccino altrui! Così come non si va in mutande al ristorante, e non si fa la lingua ai passanti.
Non si fa, ecco, appunto. Mi sono spesso sentita così, scrivendo questo libro: come una che al bar prende una brioche e la intinge nel cappuccino di un altro. Mi sono sentita scorretta e storta, inappropriata e sconveniente, e fuori posto. Mi girava in testa un costante, opprimente «non si fa», un’autocensura preventiva che però non preveniva un bel niente, un sottile senso di colpa senza effettive colpe… Non stavo trasgredendo le normali regole del vivere civile; certo è, però, che stavo pensando cose che non bisogna pensare, né dire, né vedere.
Ma io le vedevo. Come facevo a non dirle? E come facevo a non pensare le cose che mi veniva da pensare, vedendo quel che vedevo?
Paola Mastrocola, Togliamo il Disturbo
esiste oggi un culturally correct ingombrante, greve. Siamo intrisi fino al midollo di idee sulla cultura e sulla scuola neutralmente buone, quiete, grigie, tranquille, che si possono cioè tranquillamente avere, che vanno sempre bene perché le abbiamo tutti, e quindi non si fa brutta figura a dirle, anzi, aprono ogni porta e non increspano mai il mare della nostra vita sociale. Idee che però, secondo me, non abbiamo mai veramente pensato. Idee ricevute, non nostre. Nel senso che le abbiamo
ricevute da altri, ma non sappiamo più bene né da chi né quando. Forse erano già lì da qualche parte, pronte all’uso: una specie di prêt à penser. Le abbiamo indossate, e adesso fanno parte di noi e non le mettiamo mai più in discussione: e infatti dominano il nostro mondo. Col tempo, hanno formato strati e strati, fino a costruire una specie di cappa pesante che adesso ci opprime. Come il guscio di una tartaruga opprime la tartaruga (non a caso va così lenta…), ma le fa anche da casa. Eh sì, perché le idee comuni non nostre sono anche molto calde e protettive, rassicuranti, consolanti. Viviamo tutti sotto una cappa, come in una confortevole casa sottovetro, un enorme barattolo cosmico comune. Che però è invisibile.
Non mi piace vivere sotto una cappa e fare la tartaruga. Lo trovo soffocante. Soprattutto una cappa così massiccia, stratificata da anni e anni di incrostazioni mentali collettive. Volevo provare a uscire, andare a guardare il sole, e così mi sono permessa di avere delle idee culturalmente scorrette. Anche a costo di rimanere lì, inerme, senza guscio.
Paola Mastrocola, Togliamo il Disturbo
Comunque, dovrei smetterla. Non va bene che uno debba sgolarsi tanto a dimostrare che sarebbe meglio sapere la propria lingua piuttosto che non saperla. Essere costretti a dire cose ovvie procura un senso di nausea. Ci sono cose nella vita che avrebbero una loro intrinseca evidenza, che non sarebbe il caso di star tanto a spiegare, come invece sto facendo. Anche se, è pur vero, io le dico così a naso, solo col buon senso di una che per mestiere insegna, e scrive. Null’altro so dire, di più scientificamente provato e inconfutabile, sull’enorme importanza di ortografia e grammatica. Ho studiato altro. Perciò basta così, vedete voi se ho ragione o no.
Solo una richiesta: ditemi se le devo ancora insegnare queste cose o no. Forse, se i ragazzi non sanno più l’italiano, vuol dire che la scuola non ha più ritenuto che fosse il caso di insegnare l’italiano. Forse tutti in Italia (o meglio, in Europa) hanno deciso questo: che non è più utile insegnare la propria lingua, e si sono dimenticati di dirlo anche a me, e allora io sono l’ultima a fare una cosa che non interessa più a nessuno, e quindi è bene che smetta.
Paola Mastrocola, Togliamo il Disturbo
Incredibile come si sia evoluta l’arte del peluche: quand’eravamo piccoli noi, c’era giusto l’orsacchiotto o, proprio per gli originali, la scimmietta e il cagnolino, stop. Invece adesso abbiamo reso peluche anche i pesci, i pappagalli, i serpenti e le lumache, animali che col pelo, a essere sinceri, hanno ben poco a che vedere, e che tutto suscitano tranne il desiderio di stringerli affettuosamente al petto la notte mentre dormiamo. Te lo vedi un serpente boa come compagno della nanna?
Paola Mastrocola, Togliamo il Disturbo
Otto meno cinque, diventano un’orda. Che si sposta compatta e inesorabile, se sbagli il tempo ti travolge.
Io a volte sbaglio il tempo e vengo travolta. Noi insegnanti non abbiamo il pass per l’aldilà, siamo uguali ai nostri allievi, tutti fratelli, pari. Nessuno ci fa passare, offre un varco, si scosta. Non ci vedono neanche e se ci vedono è come aver visto l’aria: non siamo nulla. Veniamo assorbiti e sospinti. Come i puledrini presi in corsa nel mezzo della mandria. Nel selvaggio West. Così mi sento le mattine che sbaglio il tempo, un puledro. Vecchio.
Travolta dall’Orda procedo sospinta, inerme. Sono stretta dagli studenti-orda, a un passo, anche meno. È così che, passandoci in mezzo, li vedo. Li vedo meglio da vicino, attraverso con gli occhi i loro corpi, i giubbotti, gli zaini. E mi accorgo di quanto sono vestiti bene. Soprattutto le ragazze: jeans attillati, scarpina giusta con un po’ di tacco, cinturina viola o di lamé, golfino con scollo a V, T-shirt bordata di pizzetto, collanina di perline, fermacapelli con il fiore, orologino Armani, piccolo tatuaggio alla caviglia, minutissimo brillantino alla narice destra, maquillage, contorno-occhi, leggero fard.
Ed è a questo punto che nasce in me un pensiero acuminato: penso che ci vuole tempo. Ci vuole un tempo lunghissimo a prepararsi così per venire a scuola. E ci vuole anche arte, e pazienza. E un’infinita attenzione.
Di colpo mi rendo conto che è un lavoro delicato e complesso: si chiama «prepararsi per andare a scuola». Trovare le cose giuste, indossarle bene, combinare i colori insieme. Nulla lasciato al caso.
I ragazzi fanno tutto questo, impiegano tutto questo tempo e pazienza e abilità, proprio per venire a scuola. Ecco, è questa frase, questa finale implicita che mi illumina: si vestono così per venire a scuola. In vista della scuola. Affinché. Al fine di.
Paola Mastrocola, Togliamo il Disturbo