Pensare la scuola è un compito difficile e urgente
RAFFAELE MANTEGAZZA, PENSARE LA SCUOLA
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La crisi della forma scuola è anche e soprattutto crisi di pensiero
RAFFAELE MANTEGAZZA, PENSARE LA SCUOLA
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la scuola così come è strutturata oggi ha ancora presa sui mondi vitali dei ragazzi e delle ragazze, è ancora capace di emozionarli e soprattutto di far loro compiere un’esperienza di apprendimento.
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La formazione degli insegnanti, sia in epoca moderna e contemporanea, sia in epoche antecedenti, è stata marcata dalla difficoltà di definire con chiarezza un ruolo professionale e le specifiche competenze: tale confusione, oltre a comparire sovente nei documenti ministeriali, si è riverberata nella difficoltà a definirne con chiarezza il curriculum formativo (basti pensare alla sovrapposizione fra doti “morali” o preparazione religiosa e preparazione pedagogica presente ancora in epoca contemporanea) e il profilo professionale, sovente investito dell’alone di missione salvifica o, al contrario, di quello di “ingegnere” del processo di apprendimento. Questa dicotomia si è intrecciata e rispecchiata in maniera significativa con l’immagine di scuola che ha contraddistinto le teorie e i modelli pedagogici nel corso del tempo, immagine che vedeva il ruolo della scuola stessa come luogo di trasmissione neutra di conoscenze (pensiamo alla scuola antica, al modello dei collegi rinascimentali) oppure come luogo di educazione e di formazione dell’individuo. Tale dicotomia ha causato anche quella scissione fra cognitivo e affettivo, che ancor oggi affligge la scuola italiana.
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È necessario, invece, superare la fuorviante e pretestuosa contrapposizione fra educazione e istruzione, ricordando che il compito della scuola è quello di istruire e che se essa realizza un’adeguata ed efficace trasmissione delle conoscenze e delle competenze, rispettosa dei ritmi di apprendimento, fondata su metodologie diversificate, conscia degli aspetti relazionali, attua anche implicitamente un processo di educazione: l’educazione è, infatti, trasversale alle discipline e non può essere, invece, la sostituzione delle discipline stesse. L’enfasi su un’educazione svincolata dai contenuti, oltre a comportare un abbassamento dei livelli di istruzione, finisce per trasformare la scuola in un luogo psichiatrizzante e terapeutico e gli insegnanti in “missionari” apparentemente onnipotenti. L’esaltazione della dimensione della “cura”, ormai imperante in molti ambiti, pare celare una modalità consolatoria di fuga dalla crisi di valori, di ideali, di ideologie, che sta attraversando l’Occidente, o dalla consapevolezza della conflittualità presente nella realtà, facendo dimenticare che la “cura” non può essere contrapposta alla “cultura”, ma può solo costituire una modalità per promuoverla.
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Leggere, scrivere, far di conto; quella che gli americani chiamano la regola delle tre R – (w)Rite, Read, Reckon – costituisce ancora il mandato fondamentale dell’istruzione scolastica. L’alfabetizzazione, che a tutti i livelli e gradi della scuola costituisce il suo vero e unico fine, si declina attorno a queste tre parole chiave. La scuola in questo senso è ancora il mondo dei libri, degli alfabeti ordinati in sequenze riconoscibili dove il “dopo” spiega il “prima” e le pagine si susseguono secondo un ordine prestabilito e preciso; il libro, oggetto desueto e secondo alcuni superato, è invece secondo noi ancora oggi il fulcro dell’esperienza scolastica, e lo ribadiamo soprattutto oggi, quando la logica dei cosiddetti new media, che sempre più giungono a ridefinire la nostra esperienza del mondo, si distingue per la caratteristica della simultaneità, che tende sempre più a sostituire la sequenzialità nell’approccio alle dimensioni narrative, tipica invece appunto del libro.
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A scuola ci sono i libri, dunque, e ci sono adulti che mediano il nostro (primo?) incontro con questi strani oggetti, nei quali da secoli la specie umana deposita la sua cultura: a scuola li si incontra, li si ama e li si odia, si impara a giocare con essi e a rispettarli, a entrare nella loro logica con stupore, fatica e divertimento
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Ma allora, a che cosa serve la scuola? Dove sta la sua differenza specifica nei confronti delle altre istituzioni e degli altri luoghi della contemporaneità? La risposta a questa domanda non si può dare in sede pedagogica: la scuola è sempre funzionale a un progetto politico, nel senso nobile di gestione democratica della polis o nel senso ottuso e violento di condizionamento dittatoriale. Per questo i regimi totalitari non hanno potuto fare a meno di allungare le mani sulla scuola, anzi ne hanno fatto il relais fondamentale dei loro dispositivi di potere. Dunque il senso della scuola si decide in sede politica, e in una democrazia rappresentativa come l’Italia la scuola deve essere legata alla decisione politica (fatta dai padri costituenti e messa alla base della convivenza democratica) di creare persone critiche e aperte al dialogo. La scuola italiana non educa alla democrazia, all’intercultura, al dialogo interreligioso perché lo decidono gli/le insegnanti, ma perché lo dice il patto fondamentale sul quale lo Stato si basa e all’interno del quale (e solo all’interno del quale) l’esistenza di una scuola pubblica ha senso. Allora, per educare alla democrazia esistono diverse istituzioni, ma la scuola mette in campo una esperienza unica, un qualcosa che in questo senso c’è solamente a scuola: l’esperienza della metariflessione e della metacomunicazione. I ragazzi e le ragazze non imparano solamente a scuola: imparano dai genitori, a catechismo, dalla Tv e all’allenamento di calcio: ma c’è solamente un posto dove essi/e possono mettere in fila i diversi apprendimenti, confrontarli, capire dove e come si impara, e questo posto è l’aula scolastica.
RAFFAELE MANTEGAZZA, PENSARE LA SCUOLA
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