Con la lenza appesa al dito rividi la neve del ’56 sulla città, poi quella di ogni inverno sul vulcano e l’argenteria della neve che mi sarei caricato addosso sui cantieri del Nord arrotando i denti, le dita arrugginite intorno a un manico di pala, di piccone. I pugni accartocciati intorno al manico restavano così, non chiusi e non aperti. La sera il loro incavo rigido reggeva per incastro un cucchiaio, un bicchiere. La sensibilità si fermava al polso, oltre erano prolunghe di corda, legno, cuoio.
In quegli anni mi capitava di parlare da solo. Mi rivolgevo al corpo: “Come sopporti questo?”. Se ne stava quieto sotto il carico del turno di lavoro, rispondeva da una pazienza sconosciuta. Capivo che era un animale antico, trasmesso fino a me dagli antenati che l’avevano addomesticato a fatiche, pericoli, ferocie, scarsità. Con l’atto di nascita si eredita l’immenso tempo precedente impresso nello scheletro.
Sul bordo del sonno mi staccavo dal corpo, crollavo nel vuoto, mentre quello si metteva a riparare fibre, ricucire ferite, rastrellare energie per l’indomani. Era un’officina.
Ho abitato il corpo trovandolo già pieno di fantasmi, incubi, tarantelle, orchi e principesse. Li ho riconosciuti incontrandoli nel fitto del tempo assegnato. La ragazzina no, lei è stata primizia pure
per il corpo. Vicino a lei reagiva con slancio nelle vertebre, in su verso una crescita improvvisa. Mi accorgevo del corpo, del suo interno, accanto a lei: del battito del sangue a fior di polso, del rumore dell’aria nel naso, del traffico della macchina cuorepolmoni. Accanto al suo corpo esploravo il mio, calato nell’interno, sbatacchiato come il secchio nel pozzo.
Esiste nel corpo la neve che non si squaglia in nessun ferragosto, rimane dentro il fiato come il mare dentro una conchiglia vuota.
ERRI DE LUCA, I PESCI NON CHIUDONO GLI OCCHI