Sembrava ricavare un immenso piacere da quelle piccole incombenze domestiche. Portò il vassoio al tavolino rotondo di vimini, e mi fece cenno di accomodarmi. I suoi gesti erano semplici e rapidi: le mani si muovevano con disinvolta abilità, ma anche con la leggiadra delicatezza di una pianista. Sembrava così a suo agio, così sicura di sé… Guardandomi intorno, notai che non c’era nemmeno uno specchio, neanche nel bagno rivestito di piastrelle bianche, in cui avevo infilato per un istante la testa. Anche il cucchiaino con cui stava mescolando il mio tè zuccherato era di un ottone opaco, senza riflessi. Chiunque avesse costruito e arredato quella casa si era assicurato che Tulasi non avesse neppure una vaga idea del proprio aspetto.
“Allora, da quanto tempo vivi qui?” domandai.
“Da sempre. Da quando la maestra mi ha trovato nel tempio. Ero ancora in fasce.”
“Ti ha trovato… nel tempio?”
“Sì. Non sono come gli altri, te l’ho detto ieri. Ero avvolta nelle foglie di una pianta di tulasi. Mia madre. La maestra mi ha sempre detto che sono un dono di dio, e che per questo ho bisogno di cure. Non posso vivere in mezzo alle persone normali.”
“Quindi non sei mai uscita da questo posto?”
“No, ma non voglio neppure. La semplice idea di quello che potrei trovare oltre queste mura mi spaventa… per non parlare del timore di ciò che potrebbe accadermi, se me ne andassi.” Rabbrividì.