– Marysen’ka! Non sento i cuccioli! – dissi piano, con autentico terrore, come se il mio polso non avesse più pulsazioni. Marysen’ka si spaventò anche lei.
– Corri subito a vedere! – mi rispose bisbigliando.
Pochi secondi dopo saltavo giù per i gradini riflettendo febbrilmente: “Li ha investiti una macchina? Ma come? Tutti e quattro? Non può essere…” Corsi fuori al sole, c’era odore di terra e di erba appassita, si sentivano le macchine in lontananza, subito cominciai a fischiare, a chiamare, ripetendo i nomi dei cuccioli, tutti insieme e uno alla volta. Esplorai il cortile, invaso di erbacce, guardai sotto ogni cespuglio – non trovai nessuno.
Feci di corsa il giro della nostra strana casa, strana perché da una parte ha tre piani e dall’altra ne ha quattro. Costruita su un pendio, gli architetti hanno deciso che si poteva fare così, purché il tetto fosse diritto. Casa nostra avrebbe potuto far diventare pazzo un alcolista che volesse verificare se il delirium tremens è vicino contando e ricontando i piani della palazzina staliniana dai muri sbrecciati, ma ancora solida.
Questo pensiero mi riattraversò la mente mentre facevo con calma un secondo giro della casa, picchiando senza motivo sui tubi di scolo dell’acqua piovana e occhieggiando dentro le finestre. Dei cuccioli non c’era traccia.
Tornai a casa mortalmente amareggiato. Marusja capì subito, ma chiese lo stesso:
– Niente?
– Niente.
– Stamattina ho sentito qualcuno che li chiamava – disse lei. – Sono sicura. Un uomo, con la voce roca.
Guardai Marusja con l’aria di chi esige un ricordo preciso, cosa ha detto, quest’uomo, come lo ha detto – adesso vado a cercarlo per tutta la città, lo riconosco dalla voce e gli chiedo dove sono i miei cuccioli.
– Mi sa che li hanno presi i barboni – disse Marusja col tono di un condannato a morte.
– Quali barboni?
– Qui vicino, una famiglia intera vive in una casa di quelle chruscioviane. Alcuni uomini e una donna. La vedo spesso tornare a casa con buste piene di rifiuti. Devono averli presi loro.
– Ma… sarebbero capaci di mangiarli?
– Quelli mangiano tutto.
Per un attimo mi figurai la scena, come blandiscono con l’inganno i miei quattro ragazzi, come li infilano in un sacco. Loro guaiscono, sbatacchiati là dentro. E come sono felici quando li liberano dal sacco, nell’appartamento: gli piace, ci sono un mucchio di odori, roba da mangiare, carne marcia, cosa ancora? Puzza di vino e denti guasti.
Magari i barboni ci avevano anche giocato un po’ – sono pur sempre esseri umani – qualche buffetto sulla testa, qualche carezza sul pancino. Ma poi era arrivata l’ora di mangiare… “Non li avranno mica ammazzati tutti insieme?” pensavo, trattenendo a stento le lacrime. “Due, forse, o forse tre…” Mi figuravo queste scene terrificanti ed ero scosso da tremiti.
– Dove abitano? – chiesi a Marysen’ka.
– Non lo so.
– Chi può saperlo?
– Magari i vicini?
Mi infilai le scarpe in silenzio, mentre pensavo a che arma portare con me. A casa non ne avevo, e il coltello di cucina non lo volevo prendere. “Se taglio la gola al barbone, o ai barboni, il coltello mi tocca buttarlo” fu il mio tetro ragionamento. Bussai ai vicini, ma erano quasi tutti al lavoro, e quei pochi rimasti a casa, per lo più anziani, non capivano cosa volessi da loro – quali cuccioli… quali barboni… Non mi aprivano, e spiegare la faccenda attraverso lo spioncino di porte di legno che avrei potuto buttare giù con un calcio – tre, al massimo – mi dava la nausea. A uno urlai “vecchio scemo”, e mi precipitai fuori, verso la casa dove vivevano i barboni.
Avvicinandomi alla casa chruscioviana, sempre di corsa, mi sforzai di individuare dalle finestre l’appartamento che cercavo. Impossibile: troppe finestre misere e sporche, solo due si distinguevano per l’aria curata. Piombai nell’androne, suonai all’appartamento numero 1.
– Dove abitano i barboni? – chiesi.
– Siamo barboni anche noi – rispose l’uomo in mutande che mi aveva aperto, osservandomi torvo. – E allora?
Io guardavo al di sopra della sua spalla, nella sciocca speranza che Recluta mi corresse incontro. O che magari strisciasse fino ai miei piedi la povera Greenlan, trascinandosi dietro le budella. L’appartamento dietro di lui era buio, in anticamera una bicicletta. Per terra stuoini sporchi e mezzo accartocciati. Ad aprirmi la porta dell’appartamento numero 2 venne una donna dai tratti caucasici, seguita da un certo numero di ragazzini dalla pelle scura. A loro non spiegai nulla, anche se la donna aveva voglia di parlare, e a lungo. Di cosa non so. Salii di corsa al primo piano.
– Qui c’è un appartamento dove vivono dei barboni, – spiegai a una vecchina decorosa che scendeva le scale – mi hanno derubato, li sto cercando.
La vecchina mi informò che i barboni vivevano nell’altra scala, al primo piano.
– E cosa hanno rubato? – mi chiese quando ero già in fondo alle scale.
“La fidanzata” mi venne da scherzare, ma cambiai idea.
– Ma niente, una cosa…
In strada mi guardai intorno, forse era meglio avere con me un bastone, una spranga. Non trovai niente, se no l’avrei preso. Di spezzare un ramo all’acero americano che cresceva in cortile non avevo voglia, e poi col cavolo lo spezzi, sottile ed elastico, puoi torcerlo per una settimana e non ottieni nulla. Albero schifoso, mostruoso, pensai con rabbia vendicativa, collegando nella mia testa i barboni e l’acero americano, e pure l’America, come se i barboni fossero tutti arrivati da laggiù. Primo piano, ma dove? Quale? Quella porta, di sicuro. La più malridotta. Come se da anni ci pisciassero sopra. In basso una traversa divelta mette a nudo il legno giallastro.
Come un idiota, suonai il campanello. Ecco, adesso trillerà, basta schiacciare più forte. Mi pulii sui pantaloni il dito, contaminato dal contatto con quel campanello muto da cent’anni, senza neanche più fili. Tesi l’orecchio ai rumori dietro la porta, sperando naturalmente di sentire i cuccioli.
“Cos’è, li avete già mangiati, schifosi? Ma adesso ve la faccio vedere io…”
Per un istante riflettei sul modo migliore di colpire la porta, con la mano o con il piede. Avevo già sollevato la gamba, ma non so perché ci picchiai sopra con il palmo della mano, prima piano, poi più forte. La porta si schiuse con un sordo cigolio, lo spazio sufficiente a entrare. Spingendo con entrambe le mani la aprii, fregava sul pavimento dove si era formato un solco. Feci qualche passo nella semioscurità e nella puzza asfissiante, alimentando la mia rabbia, che rischiava di essere stroncata da quell’odore.
– Ehi! – chiamai, volevo che la mia voce suonasse forte e brutale, ma il richiamo mi uscì quasi soffocato.
“Come devo chiamarli, accidenti? Ehi, gente? Ehi, senza-tetto? Non sono neanche barboni, visto che hanno una casa.”
Mi misi a osservare il pavimento, convinto che se avessi fatto un altro passo sarei sprofondato in una melma grassa. Un passo. Il pavimento era asciutto. A sinistra la cucina. A destra una camera. Adesso vomito. Sputai una bava lunga, quella che precede la nausea. La bava oscillò, cadde, si appiccicò al muro, alla carta da parati stracciata.
“Perché in questi appartamenti la carta da parati è sempre stracciata? Che fanno, la strappano via apposta?”
– Cosa sputi? – chiese una voce roca. – Questa è una casa, cazzo.
Non capii subito se la voce fosse di un uomo o di una donna. E neanche da dove venisse, se dalla cucina o dalla camera. Dalla camera non potevamo vedermi, quindi dalla cucina. Anche la cucina era al buio. Guardando bene capii che le finestre erano tappate con fogli di compensato. Feci un altro passo in quella direzione, e vidi qualcuno seduto al tavolo. Di quale sesso continuavo a non capirlo. Una massa di capelli arruffati… Piedi scalzi… I calzoni, o qualcosa che gli assomiglia, tagliati sopra al ginocchio. Mi sembrò che sulla gamba nuda ci fosse una ferita. E che nella ferita strisciasse qualcosa, anzi molte cose. Ma forse era un’impressione, colpa del buio.
Il tavolo era ricoperto di bottiglie e barattoli di vetro.
Tacevamo. L’essere ansimava senza badare a me. All’improvviso cominciò a tossire, il tavolo tremò, i vetri tintinnarono. L’essere tossiva con tutte le sue interiora, con i polmoni, con i bronchi, con i reni, con lo stomaco, con il naso, con tutti i pori. Tutto gorgogliava e ribolliva al suo interno, spargendo all’intorno saliva, muco, fiele. Smossa, l’aria viziata dell’appartamento mi avvolse, sempre più pesante, io capii che se avessi respirato, anche solo una volta, a pieni polmoni, decine di malattie incurabili si sarebbero impossessate di me, trasformandomi in breve tempo in un invalido con gli occhi pieni di pus e una inarrestabile diarrea sanguinolenta.
Ero in apnea, sull’attenti davanti a quel mendicante tossicoloso, manco fosse un generale che ti striglia. La tosse si stava calmando, alla fine quello sputò un lungo filo di bava per terra e si pulì la bocca con la manica. Mi decisi.
– Sono qui per i cuccioli! – dissi a voce molto alta, e quasi mi strozzavo, perché pur aprendo la bocca continuavo a non respirare. Le parole sembravano di legno. – Dico a te! dove sono i cuccioli? – chiesi con l’ultimo fiato che avevo in gola: suonò come se avessi urtato con la spalla una catasta di legno, e alcuni ciocchi fossero rotolati, cozzando l’uno contro l’altro con un rumore sordo.
L’essere alzò lo sguardo su di me e ricominciò a tossire. Entrai in cucina quasi di corsa, terrorizzato all’idea che adesso sarei svenuto e sarei rimasto steso lì per terra e quelli avrebbero pensato che ero uno di loro e mi avrebbero preso con sé. Viene Marysen’ka, e mi trova coricato tra i barboni. Diedi un calcio alle gambe nude che intralciavano il mio passaggio, e mi parve che dalla ferita sulla caviglia si levassero decine di moscerini.
– Merda! – imprecai prendendo fiato, non potevo continuare a non respirare. Quello che avevo preso a calci oscillò e rovinò a terra, trascinando con sé i vetri che erano sul tavolo; bottiglie e barattoli gli rotolarono addosso, la sedia su cui era seduto si rovesciò, alzando al cielo due gambette. Non formavano una diagonale, stavano entrambe sullo stesso lato. “Come stava in piedi? Non ci si può sedere su una sedia così!” pensai, e urlai:
– Dove sono i cuccioli, pidocchio?!
L’essere si dimenava per terra, qualcosa colava vicino ai miei piedi. Strappai il foglio di compensato dalla finestra, vidi che il vetro era rotto, per questo lo avevano tappato, quindi. Tra le doppie ante, sul davanzale, era rimasto un barattolo da mezzo litro, nella marinata galleggiava un unico cetriolo molliccio, ricoperto da una folta barba di muffa bianca, da fare invidia a Babbo Natale.
– Merda! Che merde! – imprecai di nuovo, abbracciando con lo sguardo impotente la cucina semivuota, in cui oltre alla sedia cornuta giacevano alla rinfusa alcune cassette sfondate. Fornelli non ce n’erano. Nell’angolo un rubinetto perdeva. Il lavandino era ricolmo di verdura mezza marcia su cui strisciava ogni sorta di insetto domestico, con le ali o con le antenne. Scavalcai il corpo a terra e corsi nell’altra stanza, subito inciampando nei vestiti sparsi sul pavimento, cappotti, pellicciotti, stracci vari. Sepolto là in mezzo forse c’era qualcuno, dormiva. La stanza era vuota, solo un vecchio televisore troneggiava in un angolo, con il tubo catodico miracolosamente intatto. Anche quella finestra era tappata con il compensato.
– Piantala, tu! – mi gridò la voce dalla cucina. – Anche io sono un pugile, stronzo!
– Dove sono i cuccioli, pugile stronzo? – gli feci il verso, ma non tornai in cucina. Vincendo la ripugnanza, aprii la porta del bagno. La tazza del cesso non c’era, solo un buco nel pavimento. La vasca da bagno, gialla come un limone, era piena di bottiglie vuote, intere e in cocci.
– Quali cuccioli? – cominciò a chiedere la voce dalla cucina, intercalando con decine di suoni inarticolati, imprecazioni, o lamenti.
La voce era quella di un uomo.
– Avete preso voi i cuccioli? – sbraitai, cercando in corridoio qualcosa con cui colpirlo. Mi sembrava che dovesse esserci una stampella, ero sicuro di averla vista.
– Ve li siete sbafati, eh? Parla! Vi siete sbafati i miei cuccioli, cannibali! – continuavo a gridare.
– Sei tu il cannibale! – sbraitò la voce in risposta.
Raccolsi da terra un attaccapanni che doveva essere lì da un pezzo e lo lanciai contro il tipo steso in cucina, mentre continuavo a cercare la stampella.
– Saša! – chiamò il barbone. Continuava a dimenarsi senza riuscire a mettersi in piedi.
“Crash!” si schiantò sul muro la bottiglia lanciata contro di me.
– Ladro! – singhiozzava, dimenandosi al suolo nella ricerca di qualcos’altro con cui colpirmi.
Si doveva essere tagliato, la mano era coperta di sangue.
Mi lanciò addosso un boccale di metallo, poi una bottiglia. Il boccale lo scansai, la bottiglia la parai con un buffo movimento del piede.
“Basta, basta così…” pensai, e mi precipitai fuori dall’appartamento. Sul pianerottolo mi osservai, per vedere se qualche viscida porcheria mi fosse rimasta attaccata addosso. Sembrava di no. L’aria mi assalì da tutte le parti – Dio mio, come è fresca, pulita l’aria delle scale! Dal tugurio dei barboni una scia torbida e puzzolente si allungava sino a me, la si poteva tagliare col coltello. Corsi al piano terra, con un sorriso insensato stampato in faccia.
Su, al primo piano, continuavano a sbraitare.
– Anche loro sono stati bambini, – mi disse Marusja a casa – te lo immagini, anche loro avevano il pancino rosa…
– Sì… – risposi senza pensare, incerto in verità se fosse così, oppure no. Mi sforzai di ricordare la faccia del tipo seduto, e poi steso a terra, in cucina, ma non ci riuscivo.
Tornato a casa mi ero infilato nella vasca, mi strofinai con la spugna sino a quando le spalle non diventarono rosse.
– E comunque non potevano mangiarseli tutti in una sola mattina, no? Ti pare? – chiedeva a voce alta Marysen’ka da dietro la porta.
– No, infatti! – risposi.
– Forse li hanno presi degli altri barboni? – ipotizzò Marusja.
– Ma avrebbero dovuto guaire, – dissi io, pensando a voce alta – uggiolare, non credi? Quando li hanno ficcati nel sacco, avremmo sentito…
Marysen’ka tacque, immersa in qualche suo pensiero.
– Perché ci metti tanto? Vieni subito qui! – mi chiamò, e dalla voce capii che in merito ai cuccioli non era arrivata a nessuna conclusione.
– Vieni tu qui – le risposi.
Mi alzai in piedi e allungai il braccio per aprire il passantino della porta, gocciolando schiuma sul pavimento. Marusja era in piedi dietro la porta e mi guardava con occhi allegri.
Per un’ora ci dimenticammo dei cuccioli. Pensai con sorpresa che, dopo sette mesi insieme, ogni volta – e dovevano essercene state diverse centinaia – era meglio di quella precedente, anche se ogni volta sembrava che meglio non sarebbe mai stato possibile.
“Come può essere?” pensavo, mentre lasciavo scorrere la mano sulla sua schiena, che si assottigliava in vita in modo quasi innaturale per poi allargarsi in qualcosa di candido, su cui si stagliava un triangolo ancora più bianco, a forma di gabbiano… Il gabbiano era coperto di macchie rosa, colpa mia, l’avevo tutta gualcita.
La mano che un istante prima stringeva forte, dolorosamente, il viso del mio amore – mi piaceva, standole dietro, guardarla in faccia, voltarle il viso verso di me, leggere l’espressione dei suoi occhi, delle sue labbra – la mia mano era fiacca…
Due settimane dopo stavamo tornando dal supermercato – non ne avevamo più parlato, ma in cuor nostro li davamo per morti – quando ricomparvero. Come se nulla fosse, i cuccioli ci corsero incontro, graffiando subito le meravigliose gambe dell’amore mio, e lasciando gioiose impronte di zampa sui miei jeans beige.
– Ragazzi! siete vivi! – esclamai, sollevandoli in aria uno per uno e guardandoli negli occhi imbambolati.
Per ultima volevo prendere Greenlan, ma lei come al solito si rovesciò sulla schiena, offrendo la pancia rosa e facendosela sotto, forse per la paura, oppure per la felicità, o magari in segno di rispetto nei nostri confronti.
Zachar Prilepin IL PECCATO