C’era una volta un bambino e c’era una casa vecchia vecchia e povera povera e un paese addormentato che tante ne cullava di case come quella. Il bambino aveva solo un paio di scarpe, ma tanto camminava poco e aveva una mamma sognatrice, un papà che urlava forte e tre fratellini. Si svegliava sempre all’alba e tutte le mattine preparava i fratellini per portarli all’asilo, poi correva a scuola, tornava a prendere i fratellini, mangiava un pezzo di pane e una scorza di formaggio, faceva i suoi compiti e quelli del vicino di banco e non riusciva neanche a immaginare cosa ci avrebbe fatto con le dieci lire che il vicino di banco per quei compiti gli avrebbe dato il giorno dopo, che era già venuta l’ora di aprire il negozio e ficcarsi dietro alla cassa, mentre suo padre affilava i coltelli dietro al bancone. E precisamente qui che questa storia ha inizio, nella pizzicheria di Sor Antonino e ancor più precisamente nel barattolo in cui il bambino sembrava aver incollato gli occhi. Non c’era niente di speciale e nemmeno di bello in quel barattolo, c’erano solo due salamini che galleggiavano sott’olio, ma speciale era la promessa che si facevano quegli occhi di bambino: mai, mai avrebbero accettato di vedere la loro vita e il loro futuro ridotti in quello stato, non ci sarebbero finiti sott’olio, loro. Se lo ripeteva tutti i giorni e tutte le notti: «Io un giorno me ne andrò via di qua, oltre la montagna e allora la amerò, quella montagna che ora odio perché serve solo a fare tanta ombra, la amerò perché la supererò e ricorderò sempre che sarà dalla sua cima che potrò dire di aver visto il sole per la prima volta.» Lo sapeva, il bambino, quale poteva essere la sua unica via di scampo ed era pronto, era pronto a far finta di andare a letto, ogni notte, e poi, quando tutti dormivano, riaccendere il lumicino per assicurarsi che cinque per dodici faceva ancora sessanta, era pronto a riempire pagine e pagine di più e di meno, a cantilenare fino all’esaurimento che la nebbia agli irti colli piovigginando sale sale sale sale le scale della vecchia casa il bambino e alla sua famiglia dice: «Sono pronto.» «Sono pronto» disse il bambino che era ora un bambino un po’ cresciuto e col suo diploma spiegazzato in mano, spalle troppo piccole e occhi troppo grandi per la città fu lì che invece finì.
Roma non è poi così diversa da un paesino se la si guarda dalla
finestra della Casa dello Studente che non è uno studente, ma appunto lo Studente, quello che non potrebbe procurarsi nemmeno un libro se le sue suole bucate non fossero rese solide dalla volontà di camminare.
Arrivato a Roma, il bambino aveva solo cominciato la scalata della sua montagna. I pomeriggi di studio diventarono anche notti e albe e una rincorreva l’altra, perché bisognava fare in fretta, però nella camera vicina a quella del bimbo un po’ grande c’era un altro bimbo un po’ grande e in quella dopo un altro ancora e quando fermavano per un attimo quella folle corsa, prima timidi, poi sempre più arditi si riunivano – due, tre, dieci, venti… – e parlavano e si scoprivano e scoprivano che ognuno di loro aveva avuto nell’infanzia un barattolo da fissare e allora il nostro bimbo prendeva coraggio e parlava anche lui, ammutolito i primi tempi dal fare cittadino di un compagno o dalla radio nella stanza di un altro, parlava anche lui e non solo poteva farlo, doveva farlo, perché il dialetto del suo paese forse le storpiava, sì, ma le sue idee erano comunque preziose e belle e degne di venire ascoltate ascoltate ascoltate – Ascoltate! Compagni di università, come vostro rappresentante prometto di impegnarmi esclusivamente in nome del vostro interesse, sono deciso e sono…
– Sono fresco di laurea, sì signore, e proprio perché questa roba l’ho studiata solo sui libri sporcarmene le mani non sarà solo un mio dovere, ma un piacere…
– Piacere, mi chiamo Vito Gamberale…
– Gamberale. Sì, questo è il mio terzo impegno…
– Impegno e costanza. Come nuovo dirigente non vi chiedo che di rispondere a queste due regole precise e chiare…
– Chi ha responsabilità nell’azienda non sono solo io, come direttore generale, ma ognuno…
– No, non posso dirmi arrivato. Non si arriva mai.
Abbiamo tutti il diritto e il dovere di essere ogni tanto un po’ patetici e se questa specie di favola lo è, lo è perché è la storia di mio padre. Di un uomo che ora è al potere e che tutte le mattine, fatta colazione, non riesce ancora a buttare il tovagliolo di carta che ha usato e lo ripone nel cassetto sporco di caffè.
Io lo amo e lo ammiro come non amo e ammiro nessun altro e voglio diventare esattamente come lui.
Non perché è al potere ma perché riutilizza il suo tovagliolo di carta.
Questa giornata di vittoria e di giustizia io la dedico a mia figlia.
CHIARA GAMBERALE, UNA VITA SOTTILE