La fotografia non mi interessa più.
Se fosse un animale, penso che sarebbe una lepre; è sempre sul punto di scappar via. Non prendendo il volo. Non con una battuta di spirito. Ma casualmente, per il gusto di farlo. Invece di orecchie, a portargli notizia di tutto, ha occhi. Occhi divertiti.
– La sola cosa della fotografia che mi interessa – dice – è la mira, prendere la mira.
– Come un tiratore scelto?
– Conosce il trattato buddhista zen sul tiro con l’arco? George Braque me lo diede nel ’43.
– Temo di no.
– È uno stato dell’essere, una questione di apertura, di dimenticanza di se stessi.
– Non si mira alla cieca?
– No, c’è la geometria. Cambi posizione di un millimetro e la geometria muta.
– Ciò che lei chiama geometria è estetica?
– Nient’affatto. È come ciò che matematici e fisici chiamano eleganza, quando discutono di una teoria. Se un approccio è elegante forse sta avvicinandosi al vero.
– E la geometria?
– La geometria entra in scena per via della sezione aurea. Ma i calcoli non servono. Come diceva Cézanne: «Quando comincio a pensare, tutto è perduto». Quel che conta in una foto sono la sua pienezza e la sua semplicità.
Noto la piccola macchina fotografica sul tavolo accanto a lui, a portata di mano.
– Ho smesso di fotografare vent’anni fa – dice – per tornare a dipingere e soprattutto a disegnare. Eppure continuano a farmi domande sulla fotografia. Qualche tempo fa mi hanno offerto un premio per la mia «creativa carriera di fotografo». Ho detto che non credevo in una carriera simile. Fotografare è premere un grilletto, abbassare il dito al momento giusto.
Imita il gesto in modo scherzoso, proprio a un palmo dal suo naso. E, mentre rido, ripenso alla tradizione buddhista zen di insegnare scherzando, di rifiutare tutto ciò che è ponderoso.
– Nulla va perso – dice -, quel che hai visto rimane con te per sempre.
JOHN BERGER, FOTOCOPIE