Non fu dolore quello che provò Davis, nel guardare i suoi piedi così tremendamente immobili, ruotati oltre l’immaginabile, contro la fitta trama sintetica della moquette color fuliggine. Il dolore nasce. Il dolore matura. Il dolore passa. La disperazione, viceversa, che giunge in un istante, fermenta nella depressione. E sebbene per la depressione ci fossero ancora mesi di tempo, già sentiva l’indifferenza. Indifferenza per la propria vita, la moglie, il lavoro, i pazienti. La sua nuova casa, vicino al campo di golf, e la sua seconda casa, quella sul lago. Immaginò ogni cosa, persone, edifici e og-getti, in preda alle fiamme e se stesso lì, impassibile davanti al rogo, indifferente.
Guilfoile Kevin – Il creatore delle ombre
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«Alcuni hanno dubbi morali a cui la scienza non può rispondere. E naturalmente c’è la forte opposizione degli esponenti di alcuni credo religiosi. Voi andate in chiesa?»
«A Natale.» Martha arrossì.
«Se può servirvi saperlo, io stesso credo in Dio e mi sento in pace con i procedimenti scientifici che adottiamo qui», dichiarò Davis. «Non siamo in grado di clonare un’anima, sapete? In verità ho trovato che alcune persone religiose hanno meno problemi con la clonazione che con la fecondazione convenzionale in vitro.»
Guilfoile Kevin – Il creatore delle ombre
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Ogni pacco era a suo modo un mistero, tuttavia conteneva un dono scelto dalla loro lista. Una volta scartati, elettrodomestici, posate e stoviglie erano tanto graditi quanto attesi. Un figlio proprio doveva essere qualcosa del genere. Un regalo fatto da te a te stesso.
Ma un clone. Un clone non è la stessa cosa. Un clone è un regalo fatto da uno sconosciuto. Sarebbe stato amato quanto un figlio naturale, ne era certo, ma la luce e il buio che ci sono dentro un figlio clone non sono la stessa luce e lo stesso buio che si trovano nella propria anima. A differenza di un figlio naturale, l’evoluzione non ha pescato dai geni di due persone per creare qualcosa di nuovo e migliore. In un clone, gli errori del DNA della generazione precedente vengono ripetuti. Il loro figlio sarebbe stato un modello vecchio e chi poteva prevedere di che genere di disfunzioni a-vrebbe patito?
Guilfoile Kevin – Il creatore delle ombre
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Stava ascoltando in cuffia una canzone di una compilation che le aveva regalato un’amica. Il cantante doveva essere inglese. O forse scozzese. Comunque disinibito. Cantava:
Last night on earth
Don’t pick up that pen
We’re so ill-equipped to deal with all
The pressure, risk, and stress
They can’t hurt you now
It doesn’t matter what they say
You can still feel anger across the grave
But it was fun anyway
Ultima notte sulla terra
Non prendere quella penna
Sia¬mo così inadatti ad affrontare
Pressione, rischio, stress
Non possono farti del male ora
Dicano pure quello che vogliono
Senti ancora l’ira nella tomba
Ma è stato bello comunque.
Guilfoile Kevin – Il creatore delle ombre
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Le piaceva come lui sapeva emozionarla, le sensazioni pericolose che provava quando erano insieme, ma quando ci pensava, Sam non le piaceva più così tanto. Per quanto intelligente fosse, sapeva essere crudele con le persone che non gli andavano a genio e non trattava gli amici molto meglio. Per far ridere, diceva cose cattive in faccia alla gente, (invece di dirle alle loro spalle, adeguandosi alla politica cor¬rente in vigore al liceo). Era indifferente, egoista e cinico, e se da una parte queste caratteristiche facevano di lui un ragazzo speciale e invidiato, dall’altra non significava che fosse simpa¬tico a qualcuno. Se si fossero messi assieme, lei avrebbe dovuto difenderlo e non sapeva bene come farlo.
Guilfoile Kevin – Il creatore delle ombre
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«Gregor o Pete ti hanno detto qualcosa di me?»
«Non una parola in quattro anni. Mi hanno chiesto solo un parere su come te la saresti cavata, tra l’attentato e AK. Poi più niente.»
Davis abbasso lo sguardo nel bicchiere. «L’uomo che ti ha aggredito. Perché ha detto quella cosa?»
«Quale cosa?»
«Quella cosa sul figlio, la mamma e la moglie. Secondo te che cosa aveva in mente?»
«Il mio psichiatra mi ha detto che cercava di giustificarsi. Di scusarsi. Sapeva che quello che stava facendo era sbagliato e stava cercando di tra-sferire il senso di colpa da qualche altra parte. Forse è così. Non so.»
«Lo hanno mai preso?»
«No.»
«Credi che lo riconosceresti?»
«Lo pensavo. Sono passati dieci anni ormai. Lui è cambiato. Il ricordo che ho io di lui è cambiato. Credo di averlo invecchiato nella mia mente, così è sempre di quel tanto più vecchio di me. Non sono sicura che l’uomo che ho qui dentro», e si batté un dito sulla fronte, «somigli ancora molto al farabutto vero.»
«Hai mai la sensazione di dover fare qualcosa, qualsiasi cosa?»
«In che senso?»
«Per trovarlo. Per fargli provare quello che hai provato tu.»
«È proprio in questo che sta la peculiarità del violentatore, Davis, io non posso fargli provare quello che ho provato io. Potrei ammazzarlo e avrebbe comunque avuto lui la meglio su di me. Sai come succede in quei film dove ci sono quei cat¬tivi sopra le righe, quei sadici che compiono atti indicibili. Alla fine, l’eroe di turno, magari un poliziotto, lo incastra e all’ultimo momento lo uccide. Lo butta giù da una finestra, lo riduce a pezzettini con l’elica di un fuoribordo o cose del genere. Lo detesto. Non sopporto quando il cattivo muore. Io credo che sia molto peggio dover convivere con ciò che si è fatto.»
«Sì», annuì Davis. «Be’, io convivo ogni giorno con quello che ha fatto.» Alludeva naturalmente all’assassino di Anna Kat, ma per Joan quell’uomo e lo stupratore di Houston erano la stessa cosa: il Male personificato.
«Il male occupa spazio», disse. «Quando gli uomini che lo commettono, e se vuoi un giorno ne discutiamo, ma si parla quasi sempre di uomini e non di donne… quando gli uomini che commettono un atto malvagio muoiono, lasciano un vuoto, nel quale qualcun altro finisce risucchiato. Uccidere il responsabile non uccide il male. Un altro prende il suo posto. Il male è una costante fisica. Come la gravità. Il meglio che possiamo fare è cercare di mantenere noi stessi e le persone che amiamo dalla parte buona.»
«Mamme, figli, mogli», elencò Davis. «Sai che cosa veramente non riesco a mandare giù? Non tanto il chi, quanto il perché. D’accordo, voglio che l’assassino di AK sia punito, ma potrebbe essere uno fra mille mostri ugualmente intercambiabili. Non sopporto il pensiero che non ci fosse una ragione. Un movente. Che AK sia morta solo perché qualche ex detenuto di passaggio in città aveva bisogno di scaricare un istinto. Non mi servirebbe nemmeno sapere come si chiama, se potessi solo guardarlo negli occhi e cercare di capire perché lo ha fatto. Perché è dovuto succedere.»
«Davvero sarebbe abbastanza?» domandò Joan scettica.
«Non lo so», rispose lui. «Se si potesse davvero combattere contro il male, tu non lo faresti? Non ti sentiresti tenuta a farlo? A qualsiasi costo?»
Lei gli posò una mano sul braccio. «Esistono prezzi troppo alti, Davis.»
Lui tacque, ma non era d’accordo.
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