Le telefonate mi perseguitano. Tutti stanno male. Nemmeno fossi Cristo risorto, mi cercano tutti. E io non so dire di no, perché anch’io non sto bene, e a volte da solo, a casa, mi trastullo con l’idea di smetterla con la vita di questi mesi, anche solo per una settimana. Penso di potercela fare, di prendere una pausa da queste anime in pena, per pensare a tutto quel che è stato. A volte ho davvero voglia di tirare il freno. Scendere. Respirare.
Invece no.
Alla fine esco, perché un po’ si ride e un po’ si rimanda tutto al giorno dopo, che è lontanissimo. Lontano quanto una notte di sbronze, dove il tempo si dilata all’infinito sotto le luci soffuse di un locale, nei riflessi scarlatti o ocra del bicchiere, nel mormorio degli avventori, nello specchio dietro al bancone che riflette sagome sfocate, nelle grida dei lunatici sbronzi, nel fumo delle ultime sigarette, nei vecchi senza più denti e capelli e vita che ti siedono accanto, nei brindisi sghembi e nei sorrisi forzati, nei borbottii di una canna fumata al freddo, nelle camminate per una città divorata dal gelo, in un’ora abbandonata come l’alba, mentre rincasiamo con i geloni e vediamo accendersi le prime luci, tanto calde da commuoverci, al pensiero del tepore di una famiglia, un bacio sul collo, un colpo di tosse e un caffè.
Perso l’Amore (non resta che bere) * Marco Rossari