Dicono che il tedio sia la malattia degli oziosi, o che contagi soltanto coloro che non hanno nulla da fare. Invece è un malessere dell’anima più subdolo: prende chi ha già una predisposizione ad esso e, più che gli oziosi veri, attacca chi lavora, o chi fa finta di lavorare (che nella fattispecie è la stessa cosa).
Non c’è niente di peggio del contrasto fra il naturale incanto della vita interiore, con le sue Indie incontaminate e i suoi paesi sconosciuti, e la sordidezza, anche quando sordida non è, della quotidianità della vita. Il tedio diventa più pesante senza la scusa dell’ozio. Il peggiore di tutti è il tedio di coloro che si sottopongono a un’intensa occupazione.
Perché il tedio non è la malattia della noia di non aver nulla da fare, ma una malattia più grave: sentire che non vale la pena di fare niente. E, quando è così, quanto più c’è da fare, tanto più tedio bisogna sentire.
Quante volte sollevo la testa vuota del mondo intero dal registro su cui sto scrivendo! Sarebbe meglio rimanermene inattivo, senza far nulla e senza aver nulla da fare, almeno potrei gustarmi quel tedio, per quanto reale. Nel mio tedio presente non c’è pace né nobiltà, né il benessere del malessere: c’è soltanto un enorme annichilimento di tutti i gesti compiuti, e non la spossatezza virtuale dei gesti che non compirò.
IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE, FERNANDO PESSOA