Una volta mi mandarono all’Inferno. E io ci andai per davvero. Anche se, come è ben noto, quando ti ci mandano non è un ordine vero e proprio, ma, diciamo, un invito temporaneo. Io invece, presi la palla al balzo e ci andai.
Ciò che mi spinse ad affrontare il viaggio fu, più che altro, la curiosità. Avevo le idee chiare. Primo, dovevo verificare che esistesse e che fosse effettivamente in luogo malsano. Secondo, volevo vedere cosa ci fosse dentro e soprattutto chi c’era. Così, giusto per regolarmi sul come comportarmi e sul come giudicare il comportamento altrui. Terzo, per giocare a fare il misterioso e il saccente quando sarei ritornato indietro.
La cosa che più m’incuriosiva era l’individuare il metro di giudizio. Cioè cosa bisognasse, in fin dei conti, fare per poter meritare di andarci. Il problema era il limite, volevo capire, qual era il limite di sicurezza da non superare, per non trovarsi poi bruciacchiato in eterno.
Quando ci arrivai, assoggettandomi all’ordine di amica che non aveva gradito una mia battuta, mi sembrò, a prima vista, di trovarmi in un luogo del tutto normale. Ero infatti capitato in una strada ordinaria, come ce ne sono in molte città. A questo punto devo sfatare un luogo comune: l’Inferno non ha una porta ed è abbastanza facile entrarci, senza dover traghettare o altro.
Questa strada, che doveva appartenere evidentemente ad un quartiere centrale di questo Inferno, era ben tenuta. C’erano negozi, caffè, ristoranti, insomma proprio come da noi. Cioè da noi che abitiamo da questa parte che si chiama vita è che , almeno in teoria, non dovrebbe essere né un Paradiso, né un Inferno e, tanto meno, un Purgatorio. Anche se molti si lamentano di condurre una vita d’inferno o di abitare o di sentirsi in paradiso.
Io, in questa strada, da principio comminavo con sospetto. Immaginavo che, prima o poi, si aprisse sotto i miei piedi una voragine e incominciasse tutto quel turbinio di diavoli, fuoco, anime dannate che siamo soliti immaginare. Ma non accadde nulla. L’unica cosa che mi preoccupò e che le strade fossero vuote. Detti, però, la colpa al fatto che la mia amica mi aveva mandato all’Inferno ad ora di pranzo, mentre eravamo seduti al tavolo di un ristorante.
La temperatura era gradevole e ne ho approfittato per farmi una passeggiata. Dopo una mezz’oretta, mi sono anche seduto su di una panchina di un giardinetto e mi sono messo a contemplare la folta chioma di un albero che era sopra di me.
Ho subito fatto caso che intorno a me non solo non c’era essere umano (e questo mi sembrava comprensibile in una parte dell’aldilà che di umano non dovrebbe aver nulla) ma non c’era nemmeno un animale, che so un cane, un gatto, una formica, un passerotto. Niente. Ricordando quel poco che avevo studiato sull’argomento, pensai che questa assenza si dovesse al fatto che, secondo le teorie più affermate, gli animali non hanno un’anima e, di conseguenza, all’inferno non ci possono andare. Ma mi ripropongo di verificare la cosa appena ritorno, mi sembra una bella discriminazione.
Finalmente vidi un autobus che arrivava, pensai di prenderlo.
La fermata era proprio davanti a me. Feci un gesto con la mano e si fermò. Salì. C’erano due signori indaffarati che leggevano il giornale e il conducente che non mi chiese il biglietto. Mi sentii sollevato, in gioventù il biglietto non lo avevo pagato quasi mai e, qui all’Inferno, non sembrava un peccato così grave. L’autobus fece un bel giro del quartiere che non mi apparve particolarmente interessate. Intravidi in lontananza un incrocio che mi sembrò essere proprio con la strada nella quale mi ero trovato all’inizio. Allora scesi.
La novità, l’emozione di trovarmi all’inferno, mi aveva messo l’appetito. Percorsi un centinaio di metri e mi trovai dinnanzi un ristorantino che mi sembrava niente male. Anzi, non so perché, mi ricordava uno di quelli che frequentavo prima d’intraprendere quest’avventura.
Dall’esterno s’intravedevano anche i clienti, tutti indaffarati nel mangiare con avidità. Entrai.
Con mia grande sorpresa, il cameriere, mi venne incontro, quasi mi attendesse. Tutto mi sembrava molto familiare. Mi accompagnò ad un tavolo per due e fece cenno di sedermi. Io, all’inizio, non ci badai ma il tavolo non era stato rimesso in ordine e i piatti, le posate e i tovaglioli erano già stati usati. I bicchieri erano riempiti a metà di vino bianco.
Mi sedetti e attesi spazientito che il cameriere arrivasse per portar via tutto e riordinare. Dopo cinque minuti, questi arrivò con un piattino nel quale c’era un foglietto di carta. Me lo porse dicendomi: – La signora che era con lei ha atteso più di un’ora e poi è andata via. Il totale è settantotto euro e cinquanta centesimi. L’amaro l’abbiano offerto noi. Grazie.
© 2013 Gianfranco Brevetto