Non è vero che sono brutta. Non è vero che sopra di me c’è sempre la nebbia. Non è vero che sono fredda e penso solo ai soldi. [..] Per chi mi avete preso? Io sono Milano. E sono una bella signora.
Un giorno a Milano – Raffaella Rietmann, Michele Tranquillini
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Sì, Milano è proprio bella, amico mio, e credimi che qualche volta c’è proprio bisogno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni, e restare al lavoro. Ma queste seduzioni sono fomite, eccitamento continuo al lavoro, sono l’aria respirabile perché viva la mente; ed il cuore, lungi dal farci torto non serve spesso che a rinvigorirla. Provasi davvero la febbre di fare; in mezzo a cotesta folla briosa, seducente, bella, che ti si aggira attorno, provi il bisogno d’isolarti, assai meglio di come se tu fossi in una solitaria campagna. E la solitudine ti è popolata da tutte le larve affascinanti che ti hanno sorriso per le vie e che son diventate patrimonio della tua mente.
Giovanni Verga
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Vorrei che Milano tornasse la città insorta del 1848, piena di virgulti e voglia di cambiamento, una Milano dove l’interesse privato e particolare venisse messo da parte per fare spazio al bene comune.
Antonio Scurati
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Una volta girovagavo nei desolati quartieri periferici e vagabondavo lungo i terrapieni delle ferrovie, affascinato dal pittoresco romantico di Porta Ticinese, dei canali. Adesso c’è la metropoli dei grattacieli, la city un po’ avveniristica, un po’ provinciale: un misto tra il risotto e l’acciaio, che mi diverte.
Alberto Lattuada
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Se quand’era tempo avessi potuto compiacere ad un mio desiderio, io sarei andato a vivere alcuni anni a Napoli, alcuni a Milano. Queste due città, una per la sua grande popolazione, l’altra per molte particolari condizioni, sono da qualche tempo la stanza del pensare filosofico in Italia. Esse furono abitate da quasi tutti i nostri scrittori che s’innalzarono ad una certa elevatezza d’idee, ed abbracciarono una certa estensione di principii.
Giuseppe Bianchetti
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Milano è una città utilitaria, demolita e rifatta secondo le necessità del momento, non riuscendo perciò mai a diventare antica.
Guido Piovene
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Milano è una città piatta. Le sue uniche colline sono artificiali, come il Monte Stella, la “montagnetta di San Siro” creata con le macerie di guerra, o i terrapieni dei ponti ferroviari. In teoria, lo sguardo dovrebbe riuscire a spingersi fino a molti chilometri di distanza, ma altre caratteristiche di Milano vi si oppongono: la nebbia d’inverno, la foschia e l’afa d’estate. Lo spettacolare arco delle Alpi a nord e a ovest di Milano dovrebbe essere il suo orizzonte abituale, ma in realtà le montagne “appaiono” solo qualche volta all’anno. Milano è intimamente legata, nell’immaginario collettivo, al suo clima: la cappa soffocante nei mesi estivi e la nebbia d’inverno. Si dice che un vero milanese nasca “con la nebbia nei polmoni”. Spesso, Milano è letteralmente invisibile, una città in bianco e nero dove pochi, occasionali colori riescono a farsi notare: le diverse sfumature di rosa del Duomo, gli azzurri brillanti dei cieli primaverili. La si ricorda soprattutto come una città grigia, come le sue periferie. Milano viene universalmente considerata una città brutta: la sua bellezza è nascosta, privata, si cela dietro ai portoni sbarrati, negli interni dei cortili, nelle “poche piazze discrete”.
John Foot; Milano dopo il miracolo
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Milano è ossessionata dal lavoro e dal denaro. Le capacità di integrazione della città, il suo carattere cosmopolita (“la piccola mela”) e le sue qualità “americane” di dinamismo, profitto e fascino derivano da questa sua abilità nel produrre, investire e far circolare il denaro. Il mercato azionario italiano ha sede a Milano, in piazza Affari. Da sempre, è qui che le principali industrie e le banche più importanti hanno i loro uffici direttivi, la maggior parte intorno a piazza Cordusio. Dopo la rivoluzione industriale della prima metà del Novecento e il boom, Milano diventa il cuore della rivoluzione postindustriale, e le nuove industrie della moda, della pubblicità e dell’editoria diventano il traino dell’economia regionale.
John Foot; Milano dopo il miracolo
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Milano è per antonomasia la città italiana in cui i diversi passaggi della civilizzazione capitalistica, dalla prima industrializzazione al fordismo fino all’ipermodernità del postfordismo, si sono presentati nella loro dimensione più pura. Milano ha sempre giocato nell’immaginario nazional-popolare il ruolo di simbolo del movimento, della trasformazione, della modernità.
E tuttavia questa città non ha mai dismesso la sua capacità di memoria, di connessione con la sua storia. Lo testimonia il lavoro di un autore, per molti versi “anomalo”, come Giovanni Testori, il quale descriveva l’Apocalisse culturale prodotta dall’industrializzazione fordista raccontando il “Fabbricone” dalla prospettiva della comunità originaria di Novate Milanese, allora comune ella periferia di Milano oggi pezzo della città infinita. Oppure come negli anni ’30 un altro grande lombardo Carlo Emilio Gadda, osservando l’irrompere del gene egoista dell’impresa nell’antropologia della borghesia, scriveva che «negli illuminati salotti della borghesia pacchianissima, si udivano lodi dell’attività pratica, inni allo scaldabagno, ditirambi verso le maniglie di ottone stampato».
Aldo Bonomi , Milano ai tempi delle moltitudini
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Uno spaccato della storia milanese è corso Buenos Aires, uno dei posti più milanesi di Milano.
Corso Buenos Aires è chiamato anche “la galleria dei poveri”.
È la seconda “vasca” di Milano, intendendo per vasca il contenitore all’interno del quale fanno avanti e indietro gli avventori, quando non si ha nulla da fare e per fortuna, allora, si guarda Milano (le sue vetrine).
A piedi, si arriva a corso Buenos Aires dal Duomo, attraversando il “Corso” (Vittorio Emanuele, “la galleria dei ricchi”) fino a piazza San Babila e da lì verso corso Venezia (un tempo corso di Porta Orientale, fuga dal centro alla campagna), a fianco dei giardini pubblici, fino a piazza Oberdan dove, ramificato da un susseguirsi di stradine che lo collegano alla stazione Centrale, inizia corso Buenos Aires, che si estende fino a piazzale Loreto, uno dei luoghi più incomprensibili del mondo.
Il sabato e la domenica è difficile camminare per corso Buenos Aires. Arriva gente da tutta la provincia di Milano, e camminano avanti e indietro. Arrivano anche, in buona parte, dal Giappone.
A Milano ci sono i giapponesi e i piccioni, tanti.
Non solo loro, ovviamente.
Però ci sono tanti giapponesi e tanti piccioni che fanno avanti e indietro.
I piccioni volano, i giapponesi corrono.
Le due cose si fondono armonicamente, o provano a farlo, in piazza Duomo. Come in una parodia di piazza San Marco a Venezia, ci sono i venditori di mais che fanno le foto ai turisti che danno da mangiare ai piccioni; nelle foto, generalmente, si vedono corpi abbozzati sotto una quantità incongrua di piccioni svolazzanti. Solo i giapponesi si fanno ritrarre mentre nutrono i piccioni.
È una cultura turistica massimalista.
Quella delle magliette “Sono stato in Italia”.
E quindi piazza San Marco a Venezia, il Duomo di Milano la mole Antonelliana piazza del Campo il Colosseo il Vesuvio.
La foto con i piccioni in piazza Duomo.
Sono opere espressionistiche spicciole, inconsapevoli, con la funzione di souvenir massimalisti.
I giapponesi li noti perché sono in gruppi, quasi sempre, e si muovono compatti. Fotografano tutto.
È stato calcolato che chiunque ha un suo ritratto, involontario, in un album di fotografie giapponese.
Un turista giapponese, fotografando tutto, ha fotografato anche te, che del tutto sei parte e sai che di te rimane testimonianza, in un appartamento di Shibuya, ad esempio.
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Roma è un grande pianeta.
Milano è una stella.
La più grande.
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Bonvesin de la Riva era un maestro di grammatica nato verso la metà del Duecento e morto nel 1313. Si chiamava così perché “la riva” era la ripa di Porta Ticinese, il quartiere di Milano dove abitava e insegnava.
Bonvesin lo si studia, a volte, nelle scuole superiori e se ne cita la sua vividissima descrizione dell’inferno, un luogo puzzolentissimo dove i diavoli mestolano nei pentoloni i peccatori e se li mangiano.
Ma oltre a questa visionaria descrizione pulp del tenebroso aldilà, Bonvesin de la Riva ci ha consegnato un’opera fondamentale per farci un’idea di come vedesse Milano un erudito di ottocento anni fa: il De magnalibus Mediolani (Le meraviglie di Milano), che riassumeremo qui in parte.
Milano, ci racconta Bonvesin, è una città meravigliosa, ma i milanesi (già allora) hanno troppa fretta e non se ne accorgono. Milano è la città più bella d’Italia. È come il Sole tra i corpi celesti. Secondo Bonvesin, questo dimostra che il papa dovrebbe stare a Milano, e non a Roma, perché Milano è più importante di Roma.
Roma è un grande pianeta.
Milano è una stella.
La più grande.
Così diceva Bonvesin.
Perché?
Perché non ha paludi fetide e schifose, ma limpidi fiumi, e acque molto buone da bere, saporite e leggere.
Le acque di Milano sono meglio del vino.
Bonvesin era fissato, con l’acqua. Ma a quei tempi era normale, perché le reti idriche erano messe malissimo.
Il clima, dice poi Bonvesin, a Milano, è temperato tutto l’anno, e fino a mezzanotte non fa mai freddo.
A Milano, le persone muoiono molto vecchie.
Le strade sono larghe.
I palazzi sono belli.
Le case sono numerose e tutte attaccate.
Le case sono circa dodicimilacinquecento.
La città è rotonda, e al centro c’è una corte con un bellissimo palazzo.
La città è cinta di mura e ha sei porte. Ogni porta ha due torri. Ci sono duecento chiese e quattrocentottanta altari. Ci sono centoventi campanili e duecento campane. Chi sale sulla torre del palazzo al centro della città vede dei bellissimi paesi, tra i quali Monza. Oltre a Monza ci sono altri centocinquanta paesi che circondano Milano, e sono tutti belli.
Ci sono tante cascine, fiumi, eremi, frutteti.
Chi visita Milano e i suoi dintorni, dice Bonvesin, “anche girando il mondo intero non troverà mai un simile paradiso di delizie”.
I milanesi maschi e femmine sorridono sempre e non ingannano.
Vivono con decoro e si vestono bene.
Sono molto religiosi.
La popolazione si espande in continuazione, perché l’acqua è buona.
I malati possono andare negli ospedali, che in città sono dieci e in periferia quindici. Tutti i malati poveri vengono curati gratis.
Ci sono quattrocento frati che vivono di elemosina.
Diecimila preti.
Centoventi giudici.
Millecinquecento notai.
Sei trombettieri.
Ventotto medici.
Cento cinquanta chirurghi.
Otto professori di grammatica.
Centocinquanta cantanti.
Settanta maestri.
Seicento fornai.
Mille mercanti.
Quattrocentocinquanta macellai.
Quattrocento pescatori.
Trenta fabbricanti di campanelle per cavallo.
Cento nobili che vanno a caccia di falconi.
Più di cento fabbricanti di corazze per soldati.
Duemila morti sepolti in tombe di marmo o di selce.
Milano, continua Bonvesin, produce ceci, fagioli, grano, segale, miglio, lenticchie, rape, ciliegie aspre, ciliegie dolci, prugne bianche, prugne rossicce, fichi grossi e nocciole piccole adatte alle donne, pesche, pere, pomodori, castagne, bietole, lattuga, sedano, prezzemolo, finocchio, zucche, trifogli, viole, rose.
Ci sono buoi, pecore, capre, cavalli, muli, asini.
Alberi, fave, olio, pane, vino, carne, galline, pavoni, fagiani, cani, allodole, merli, arieti, anatre, miele, ricotte, latte, gamberi, pesci grossi appetitosi, lino, seta, pepe, sale.
Quattro volte all’anno ci sono i mercati generali.
Due volte alla settimana i mercati di rione.
Nessuno sta mai fermo.
C’è tanto da fare.
Gli uomini corrono di qua e di là.
Le donne sposate corrono di qua e di là.
Le donne vergini corrono di qua e di là.
I fanciulli corrono di qua e di là.
Aldo Nove, Milano non è Milano
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Milano è come la punta di un iceberg.
Sotto, immensa, c’è la sua storia. Ogni tanto un’onda ne scopre un frammento, prima che le acque, nell’opera di corrosione inarrestabile che questa città si è proposta per esistere sempre presente a se stessa, nel presente, lo riportino sotto.
Millenni underground.
Per conoscerla, bisogna avere la pazienza di ascoltarla.
Con lo stetoscopio.
Come pulsa dentro.
Bisogna saperla sentire.
Suo malgrado.
Dove rivela la sua memoria. Diceva Nietzsche che la vitalità non trae giovamento dalla storia. Chi vive, se vuole andare avanti, deve dimenticare.
Il suo passato.
E Milano si dimentica, si trasforma come la divinità azteca con cui abbiamo iniziato questo libro.
Per sopravvivere a se stessa.
Aldo Nove, Milano non è Milano
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