Oggi che né la sudditanza ai maschi né la maternità sono più un destino ineludibile e “naturale”, almeno per una fetta femminile d’Occidente, è arrivato il momento anche di riportare se non sugli altari, almeno nei libri di storia, le donne che, sia pure all’ombra di figli maschi più illustri, hanno affrontato con coraggio la vita
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In una recente raccolta di saggi dello scrittore irlandese Colm Tóibín, che si intitola significativamente New Ways to Kill Your Mother, Nuovi sistemi per uccidere tua madre, tra le varie relazioni familiari invasive si ricorda quella del drammaturgo Samuel Beckett. Parlando di sua madre, Beckett commentò: «Il suo amore selvaggio mi ha modellato». Forse è ancora più significativo che l’autore del libro, Tóibín, la sua mamma non la citi nemmeno.
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Diceva il filosofo Michel de Montaigne, a proposito dei figli morti ancora bambini: «Anch’io ne ho persi due o tre». Ovvero non si ricordava quanti mancassero al conto. Un mostro di indifferenza? All’epoca non arrivava a un anno di vita un bambino su tre. Era una perdita prevista. Ma se a dirlo era una donna, era scandalo. Lo fece, da quel che lascia intuire Giacomo Leopardi in un passo dello Zibaldone, proprio sua madre, Adelaide.
Non fu solo questo il motivo che la rese antipatica ai posteri. Ma, di certo, Adelaide Antici Leopardi è passata alla storia, per quel poco che c’è passata, con una pessima fama.
A essere precisi, alla storia c’è passata in ogni caso, soprattutto perché di lei si sono occupati personaggi insospettabili. Scriveva per esempio il cattolicissimo senatore e giornalista Filippo Crispolti (fu caporedattore dell’ Osservatore romano, di cui lo zio Cesare era stato direttore), in un articolo a lei dedicato nella Nuova Antologia del 16 settembre 1929: «Era una fanciulla di bellezza severa, da gli occhi di zaffiro splendenti e intelligenti, benché velati da una pensosa malinconia; dai corti capelli ricciuti d’un castano chiaro tendente al biondo, da l’aspetto maestoso, che pareva accordarsi perfettamente al carattere del vetusto palazzo di cui diveniva signora; alta e con un portamento da regina, ella nelle graziose acconciature e nelle succinte vesti, di cui la moda era venuta allora da Parigi, nulla perdeva de l’austerità naturale; e il viso, soprattutto gli occhi e la fronte, restavano severamente assorti, come in un mesto pensiero, sotto i diffusi riccioli ornati da un filo di perle, da un nastro di velluto e da un capriccioso spennacchietto. Tale ci appare in una miniatura sopra una tabacchiera di Monaldo; nessun sorriso, nessuna mollezza nelle austere sembianze: non sembra una delle graziose, voluttuose donne del secolo passato, ma un’antica matrona travestita…».
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Annota Irvin D. Yalom, nel bel romanzo La cura Schopenhauer: «Johanna (Trosiener, la mamma di Arthur Schopenhauer) scrisse nel suo diario che, come tutte le giovani madri, dopo la nascita di Arthur nel febbraio 1788 amava giocare con la “sua nuova bambola”. Ma le bambole nuove diventano presto vecchie, e nel giro di pochi mesi Johanna si era stancata del suo giocattolo…». Non si potrebbe sintetizzare meglio il disinteresse che l’intelligente Johanna provò subito per suo figlio e che caratterizzò non soltanto la loro vita comune ma, forse, la misantropia e misoginia del futuro filosofo. Sto semplificando. Ovvio che contribuì parecchio l’indole del pargolo. E i pregiudizi dell’epoca. Di fatto lui si sentì tradito. E non si concesse mai di perdonare.
Yalom descrive molto bene la noia e il senso di soffocamento di Johanna nell’isolamento di Danzica dove gli Schopenhauer avevano le loro proprietà: Heinrich, il marito, era gelosissimo e la teneva confinata in casa, impedendole di avere rapporti con il resto del mondo. Di questo Arthur non volle mai tenere conto. Anzi, benché il suo aguzzino fu senz’altro il padre, che lo costrinse a studiare, come lui, da mercante anziché da filosofo, il suo odio si concentrò contro la madre. Per Freud è (quasi) tutto spiegato.
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«Mia madre era una donna molto severa, austera, rigida nelle sue idee tanto sulle piccole che sulle grandi cose […] L’unico modo per un figlio per non essere schiacciato da personalità così forti era opporre un sistema di difese. Il che comporta anche delle perdite: tutto il sapere che potrebbe essere trasmesso dai genitori ai figli viene in parte perduto». Giudizio quasi senza appello di Italo Calvino su sua madre, Eva. Vero: nel suo studio dominava il silenzio. Tanto che la complicità tra Eva Mameli e il figlio Italo Calvino era fatta «di sguardi e gesti più che di parole». Ma che donna fuori dall’ordinario!
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Italo Calvino: «Sono figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia madre una botanica; entrambi professori universitari. Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano un onore; un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato a una chimica (anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche); mio fratello è un geologo, professore universitario. Io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia».