Lloyd era amato dai pazienti per via delle sue battute scherzose e perché li sapeva prendere con mani forti e sicure. Era largo di spalle, ben piantato e abbastanza autorevole da essere scambiato a volte per un dottore. (Non che la cosa lo lusingasse, peraltro: a suo giudizio, gran parte della scienza medica era una truffa e tantissimi medici, degli emeriti coglioni). Aveva la carnagione rossastra e delicata, i capelli chiari e lo sguardo audace. Baciò Doree in ascensore e la paragonò a un fiore del deserto. Subito dopo rise da solo, commentando: – Come mi sarà uscita, questa?
– Magari sei un poeta, e non lo sai, – ribatté lei, per essere cortese.
ALICE MUNRO, TROPPA FELICITA’
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I bambini attribuiscono al verbo «odiare» significati diversi. Può voler dire che hanno paura. Non che si sentano in pericolo di un’eventuale aggressione – come mi succedeva, ad esempio, con certi bambini grandi e grossi che, in bicicletta, si divertivano a tagliarmi la strada strillando come indemoniati, mentre passeggiavo sul marciapiede. Non è una minaccia fisica che si teme – o che io temevo nel caso di Verna – quanto piuttosto un sortilegio, una malevolenza. È una sensazione che, da molto piccoli, si può provare anche riguardo alle facciate di certi edifici, o a dei tronchi d’albero e, spessissimo, a cantine umide o armadi a muro profondi.
ALICE MUNRO, TROPPA FELICITA’
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Si siede come sempre nella sua grande poltrona, circondata da pile di libri e di riviste mai aperte. Sorseggia adagio la tisana insipida che ha preso il posto del caffè. C’è stato un momento in cui ha creduto che non ce l’avrebbe fatta a tirare avanti senza caffè, ma poi ha scoperto che quello di cui non può fare a meno è stringere in mano il tazzone caldo, che è quella sensazione a favorirle i pensieri, o qualunque altra pratica svolga nel corso delle ore, o delle giornate.
ALICE MUNRO, TROPPA FELICITA’
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Al funerale una donna mi disse: – Tua madre è una santa -. Ho chiara in mente l’immagine della donna, sebbene non il suo nome: ricciolini bianchi, guance incipriate, lineamenti fini. Un sussurro piagnucoloso. Suscitò la mia immediata antipatia. Mi accigliai. All’epoca frequentavo il secondo anno di college. Non mi ero iscritto alla fratellanza universitaria di mio padre, nella quale peraltro nessuno mi aveva invitato. Mi accompagnavo con aspiranti scrittori e commedianti che per il momento erano giusto ingegni arguti, perdigiorno professionisti, feroci censori del sistema, atei dell’ultim’ora. Non avevo alcun rispetto per chi si comportava come un santo. E, a essere sinceri, mia madre non mirava a niente del genere. Era tanto lontana da ogni forma di santità, che neanche una sola volta quando tornavo a casa, mi aveva chiesto di entrare nella stanza di mio padre cercando di strappargli un cenno di riconciliazione. E io non lo avevo mai fatto. Non esisteva alcuna prospettiva di un accomodamento, nessuna benedizione. Mia madre era tutt’altro che una sciocca.
ALICE MUNRO, TROPPA FELICITA’
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Come si può capire, non ero in grado di contribuire alla costruzione di un matrimonio sereno.
Ma come erano potuti finire insieme? Lei non aveva frequentato il college, aveva dovuto farsi prestare il denaro per pagarsi il corso di abilitazione all’insegnamento. In barca a vela aveva paura, sul campo da golf era maldestra e, ammesso che fosse una bella donna, come mi è stato detto da alcuni (è difficile esprimere un giudizio personale sulla propria madre), non disponeva certo del tipo di bellezza che mio padre avrebbe ammirato. Lui definiva certe donne uno schianto o, piú avanti negli anni, una bambola. Mia madre non usava il rossetto, portava reggiseni modesti, si puntava i capelli in una stretta crocchia di trecce che sottolineavano l’ampiezza della sua fronte bianca. Il suo guardaroba era sempre in ritardo sui dettami della moda, con articoli informi e regali al tempo stesso: era il genere di donna che uno immagina con un filo di perle, anche se non credo ne abbia mai avuto uno.
Quello che sto cercando di dire, a quanto pare, è che potrei essere stato un pretesto, una benedizione addirittura, nel senso che fornivo loro una lite bell’e pronta, un problema insolubile che li rimandava alle loro naturali differenze, in seno alle quali non è escluso che potessero trovarsi piú a proprio agio. In tutti gli anni passati in paese, non ho mai incontrato nessuno che avesse divorziato, perciò si può dare per certo che dovessero esserci altre coppie di separati in casa, altri uomini e donne che avevano accettato l’impossibilità di sanare le rispettive idiosincrasie, o l’esistenza di una parola o un gesto per sempre imperdonabile, di una barriera ineliminabile.
Il risultato, poco sorprendente in una storia come questa, fu che mio padre fumasse e bevesse troppo, sebbene lo facessero anche quasi tutti i suoi amici, indipendentemente dalle loro situazioni. Ebbe un ictus prima dei sessant’anni, e morí dopo svariati mesi a letto. Né sorprende del resto che mia madre lo abbia curato per tutto quel tempo e che se lo sia tenuto in casa dove lui, anziché sciogliersi in manifestazioni di affettuosa riconoscenza, la insultava con epiteti impastati dalla disgrazia ma pur sempre decifrabili alle orecchie di lei e piuttosto gratificanti, si sarebbe detto, a quelle di lui.
ALICE MUNRO, TROPPA FELICITA’
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Viaggiava e basta, guardando il panorama. Era cresciuta sulla costa, dove esisteva una cosa chiamata primavera mentre da quelle parti l’inverno precipitava quasi senza soluzione di continuità nell’estate. Un mese prima c’era ancora la neve, e ora faceva abbastanza caldo da andare in giro sbracciati. Nei campi restavano abbaglianti pozze d’acqua, e il sole picchiava attraverso i rami spogli.
ALICE MUNRO, TROPPA FELICITA’
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