Ieri a Paros ho conosciuto un medico. E’ un uomo del Sud, della nostra Creta, penso, anche se non gliel’ho chiesto. E’ un uomo basso e robusto, con delle venuzze sul naso. Io guardavo l’orizzonte e lui mi ha domandato se stessi guardando l’orizzonte. Sto guardando l’orizzonte, gli ho risposto.
L’unica linea che frange l’orizzonte è l’arcobaleno, ha detto lui, l’inganno di una riflessione ottica, una pura illusione.
E abbiamo parlato di illusioni, e non volendo ho parlato di te, ho fatto il tuo nome senza farlo, e lui mi ha detto di averti conosciuto perché aveva suturato le tue vene un giorno che ti tagliasti i polsi. Non lo sapevo, e ciò mi ha commosso, e ho pensato che in lui avrei trovato un poco di te, perché aveva conosciuto il tuo sangue.
Così l’ho seguito nella sua pensione, si chiamava Thalassa, era infatti sul lungomare, ed era squallida, abitata da stranieri di classe modesta che vengono a passare le ferie in Grecia e detestano i greci. Però lui non era come loro, era gentile, si è spogliato con pudore, e aveva un membro piccolo, un po’ ritorto, come certe statue di satiri delle terrecotte del museo di Atene. E non voleva tanto una donna ma soprattutto parole di conforto, perché era infelice, e io ho finto di dargliele, per umana pietà. Ti ho cercato, amore mio, in ogni atomo di te che è disperso nell’universo. Ne ho raccolti quanti mi era
possibile, nella terra, nell’aria, nel mare, negli sguardi e nei gesti degli uomini.
Ti ho cercato perfino nei kouroi, nella lontana montagna di una di queste isole, solo perché una volta mi dicesti che ti eri seduto sul grembo di un kouros. L’ascesa non è stata facile.
La corriera mi ha lasciata a Sypouros, se così si chiama un villaggio sconosciuto anche alle mappe geografiche, e poi c’erano tre chilometri da fare a piedi, ho salito lentamente la strada sterrata a curve che più avanti scende verso una valle di ulivi e cipressi. C’era un vecchio pastore lungo la strada, e gli ho solo detto l’unica parola che importava, kouros.
E nei suoi occhi è brillata una luce di complicità come se avesse capito, come se sapesse chi ero io e chi cercavo, che cercavo te, e senza dire una parola ha steso una mano indicandomi il cammino, e io ho raccolto il suo gesto che mi ha guidato e quella luce che è brillata un attimo nei suoi occhi e li ho messi in tasca, guarda, li ho qui, potrei disporli sul tavolino di questa terrazza dove sto cenando, sono altre due pietruzze di questo affresco in briciole che sto disperatamente raccogliendo per ricostruirti, oltre all’odore dell’uomo con cui ho passato la notte, l’arcobaleno sull’orizzonte e questo mare celeste che mi angoscia.
ANTONIO TABUCCHI, TRISTANO MUORE