Conoscevo gli adulti, tranne un verbo che loro esageravano a ingrandire: amare.
Mi infastidiva l’uso.
In prima media lo studio della grammatica latina l’adoperava per esempio di prima coniugazione, con l’infinito in -are.
Recitavamo tempi e modi dell’amare latino.
Era un dolciume obbligatorio per me indifferente alla pasticceria.
Più di tutto mi irritava l’imperativo: ama.
Al culmine del verbo gli adulti si sposavano, oppure si ammazzavano.
Era responsabilità del verbo amare il matrimonio dei miei genitori. Insieme a mia sorella eravamo un effetto, una delle bizzarre conseguenze della coniugazione. A causa di quel verbo litigavano, stavano zitti a tavola, i bocconi facevano rumore.
Nei libri c’era traffico fitto intorno al verbo amare.
Da lettore lo consideravo un ingrediente delle storie, come ci stava bene un viaggio, un delitto, un’isola, una belva.
Gli adulti esageravano con quell’antichità monumentale, ripresa tale e quale dal latino. L’odio sì, lo capivo, era un contagio di nervi tirati fino al carico di rottura.
La città se lo mangiava l’odio, se lo scambiava col buongiorno di strilli e di coltelli, se lo giocava al lotto. Non era quello di adesso, aizzato contro i pellegrini del Sud, meridionali, zingari, africani.
Era odio di mortificazioni, di calpestati in casa e appestati all’estero.
Quell’odio metteva aceto nelle lacrime.
Intorno a me non lo vedevo e non lo conoscevo il verbo amare.
ERRI DE LUCA – I PESCI NON CHIUDONO GLI OCCHI